Lauretta Masiero una fuoriclasse piena di talento e ironia

Miss Simpatia. Era una donna di una comunicativa irresistibile e, cosa che non guasta, anche molto seducente. Altrimenti Macario, il massimo intenditore italiano di soubrette, mica l’avrebbe presa nel suo harem. Harem artistico, beninteso. Non aveva una bellezza esplosiva Lauretta Masiero, scomparsa ieri a Roma a ottantadue anni, ma piuttosto un fascino birichino, avallato da una frangetta maliziosa che metteva in risalto due occhi vivacissimi. Era nata a Venezia e l’inflessione veneta ogni tanto le saltava fuori, nonostante la dizione teatrale. Già perché a quei tempi, tra il Cinquanta e il Sessanta, non si saliva sul palcoscenico né ci si presentava davanti alle neonate telecamere senza aver fatto un po’, anzi un bel po’, di scuola.
Gli esordi dell’eclettica attrice erano avvenuti, come era regola per le signorine dalle gambe parlanti, e quelle della giovanissima Lauretta a dir poco urlavano, tra le ballerine della rivista. Un debutto, subito dopo la guerra, nientepodimenoché con Wanda Osiris, la Wandissima, vale a dire la Greta Garbo del teatro leggero. Come detto una femmina del genere non poteva sfuggire all’occhio clinico di Erminio Macario: vista e presa. Ovvero scritturata.
Gli occhi li strizzava anche il cinema alle divette in ascesa, film non proprio da Oscar e nemmeno da Nastro d’argento, fatti in quattro e quattr’otto per un pubblico di bocca buona, lo stesso che magari prima si godeva l’avanspettacolo e poi la commediola. Spesso balneare, per fregare l’arcigna censura che stava lì a misurare i centimetri di pelle scoperta, ma che poi era costretta ad alzare bandiera bianca di fronte a titoli come Tipi da spiaggia del ’59: mica si poteva pretendere che la Masiero e compagne uscissero dalla cabina col cappotto. Dunque nessun capolavoro nel suo albo d’oro cinematografico, ma Totò a Parigi del ’58 e Sua eccellenza si fermò a mangiare, del ’61, ancora con Totò, altro grande cultore di curve da concorso, sono due pellicole deliziose. Di certo migliori del Bandolero stanco, del ’52, Marinai, donne e guai, del ’58, e di Peccatori di provincia, del ’76. Una carriera conclusa nel ’90 con un ruolo marginale nell’ambizioso, e noiosissimo, Il viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola e due anni più tardi nel micidiale fumettone sentimentale Ostinato destino, accanto alla sfolgorante Monica Bellucci, che di ostinato, evidentemente, ebbe anche il rifiuto dell’autoironia.
Eclettica come poche, oltre a diventare primadonna in riviste di grande richiamo, come Attanasio cavallo vanesio, col marchio di fabbrica Giovannini&Garinei e un partner sulla cresta dell’onda come Renato Rascel, fece anche teatro, teatro vero. Anche se, ovvio, distinguendosi soprattutto nel repertorio brillante, in ditta con attori con la maiuscola, da Calindri alla Volonghi, da Foà alla Pagnani. Con qualche spericolata incursione nelle opere di Pirandello. Tra i colleghi incontrati sul palcoscenico ci fu anche Alberto Lionello, che la Masiero ritrovò in tv, nella memorabile Canzonissima del 1960, terzo lato del magico triangolo Aroldo Tieri, che riuscì nella missione, sulla carta impossibile, di non far rimpiangere l’edizione precedente, quella con il trio Manfredi-Scala-Panelli. Lionello cantava l’orecchiabile ritornello rimasto nella storia come il «Lalala», facendo volteggiare una paglietta che oscurò quella mitica di Odoardo Spadaro, la Masiero gli teneva bordone con voce flautata e movenze vagamente sensuali, l’una e le altre ben ripiene di spirito.
Una popolarità destinata ad aumentare con il primo serial tv dedicato a un investigatore donna. Laura Storm si chiamava quel personaggio andato in onda nel ’65 e nel ’66 sul Programma nazionale, che sarebbe poi la Raiuno d’oggidì. Il vero cognome del personaggio era Persichetti, un’improbabile giornalista appassionata di judo e eterna fidanzata al caporedattore Aldo Giuffré, stufo già al secondo degli otto episodi, di rinviare il matrimonio. Accompagnata dal fotografo, imbranato anzichenò, Oreste Lionello, indagava con temeraria incoscienza in titoli che riecheggiavano Mickey Spillane (Un cappotto di mogano per Joe) o Jean Gabin (Defilé per un delitto). Tacchi a spillo e impermeabile bianco, un lampante sberleffo al Tenente Sheridan interpretato da Ubaldo Lay, che in quel trench aveva trovato l’America. Un giallorosa spassoso, grazie alle brillanti sceneggiature di Leo Chiosso, il paroliere umorista di Fred Buscaglione, e di uno sconosciutissimo Andrea Camilleri, ignaro papà di Montalbano.
Insomma, mezza Italia era innamorata di Lauretta Masiero. E tra i venti milioni di pretendenti in pectore, lei scelse un cantattore di grande talento e di accertata simpatia, Johnny Dorelli, che a solo vent’anni, nel ’58, aveva stravinto Sanremo in coppia con Modugno, e stava già scalando l’Olimpo delle celebrità meglio di Compagnoni e Lacedelli il K2. Un’unione molto felice, nonostante i dieci anni di differenza, allietata, come tuttora dicono i settimanali rosa, dalla nascita di Gianluca, prevedibile futuro talento della scena. Una liaison sulla quale gli stessi settimanali marciarono per anni, a conferma di una popolarità straordinaria, sia di lui, sia di lei. Poi la love story finì all’apparire di Catherine Spaak e la Masiero ne soffrì molto, senza peraltro darlo a vedere, né in scena né sul set.


Quando se ne vanno i personaggi famosi, i telegrammi, si sa, si sprecano. Ma è bello pensare che quello del suo più illustre coetaneo, il presidente della Repubblica Napolitano, che fa trapelare un’emozione autentica, invece che da uno zelante ufficio stampa sia stato scritto proprio da lui.

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