Lavavetri, la guerra ipocrita della sinistra

Nella settimana, l’evento, si fa fatica a crederlo, e a scriverne, è stato la guerra ai lavavetri della giunta rossa di Firenze, nobilitata nientemeno che dal ministro dell’Interno Amato perché atta a rassicurare i cittadini sulla loro sicurezza, da oggi in buone mani. Il primo giorno, i toni dei giornali sono trionfali: sono bastate quindici multe inflitte ad altrettanti lavavetri per farli sparire di colpo.
C’è chi dice che torneranno, ma c’è anche chi nutre fiducia: hanno capito l’aria che tira, non si faranno più vedere sulle rive dell’Arno. Per il momento, assicura il Corriere, l’assessore Cioni, che ha mosso guerra ai perturbatori della quiete, si gode il trionfo. Firenze è con lui, con lui sono Torino, Bari, e quella sinistra che con un occhio a Sarkozy, con l’altro a Rudolph Giuliani aspettava una occasione per far capire di che tempra è fatta.
Il secondo giorno, le cose già si complicano, i giornali titolano che i lavavetri, pur sconfitti, «dividono il governo» e se Amato è d’accordo Ferrero non lo è, e così Pecoraro Scanio, mentre Cento scende per le strade a lavare i vetri e nessuno lo infastidisce, sono i privilegi della casta. E Bertinotti non è affatto convinto. Dice: «Ve la prendete con gli ultimi». Non poteva dire altro, Bertinotti, ma rimestando nelle latebre della sua storia ha scovato almeno una buona ragione. Il Corriere corregge il tiro, e dedica all’impresa di Cioni un ampio servizio: ci sarebbe un retroscena, una lotta per il potere fra i Ds, il sindaco Domenici era in vacanza, ed è alla fine del secondo mandato, l’assessore Cioni detto già «lo sceriffo», ha le sue ambizioni, e avrebbe azzeccato la mossa giusta.
La guerra dei lavavetri, ha una sua storia, una storia di miseria, anzi di geografia delle miserie. I primi ad apparire per le strade di Roma col secchio e lo scopettone, caduti i regimi comunisti dell’Est, furono i polacchi. Che furono più lesti a salire i primi gradini, lasciarono il posto agli albanesi, e infine ai romeni, e agli ultimi fra loro. E questa storia dovrebbe pure suggerire qualcosa ai gerarchi post-comunisti su quelli che oggi vengono definiti da una parte un pericolo, un turbamento dell’ordine, che da un’altra parte suscitano qualche pena: se levate loro il secchio e la scopa, alibi e copertura di un accattonaggio nascosto, che sarà di loro? Gli ultimi, i frammenti della esplosione dei regimi comunisti che per cinquanta anni hanno tenuto nella miseria metà del continente, dovrebbero suggerire almeno un qualche imbarazzo ai post al potere da noi, dal governo alle città.
Una canzone anarchica della fine ’800 recitava: «I nostri figli hanno rubato e giaccion ladri nelle prigion/le nostre figlie son prostitute e muoion tisiche negli ospedal». Le colpe erano, va da sé, del capitalismo feroce nello sfruttamento e spietato nell’abbandonare i più deboli, gli ultimi di Bertinotti, al loro destino di vittime. Più di un secolo dopo, abbiamo dinanzi agli occhi lo spettacolo di quel che sono diventate le strade e le città d’Europa, leggiamo i titoli dei giornali sulle rapine nelle ville, e sulle giovani dell’Est finite in schiavitù sulle nostre strade, sappiamo qual è stato il male del secolo che sarà stato breve, ma è stato anche crudele. Il fatto di avere scansato il pericolo, avendocela messa tutta per cascarci dentro, dovrebbe consentirci di giudicare con qualche equità. Storica, almeno.
Leggo di un certo timore nel centro-destra perché uno dei suoi argomenti, e dei suoi temi, l’ordine pubblico, rischia di essergli scippato da una sinistra che solo ora osa proclamare che la sicurezza «non è di destra né di sinistra». Questo dopo che per decenni sull’immigrazione la stessa sinistra ha fatto una politica ispirata alla demagogia più facile, e un po’ losca. Come è del resto la severità di oggi. In ogni caso, questa guerra sulla pelle di lavavetri e simili esplosa a sinistra è semplicemente miserabile, la combatta chi ha animo per farla.
a.

gismondi@tin.it

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