Partiamo da un presupposto innegabile: friggere patatine non è come lavorare in banca. E il lavoro da McDonald’s, in gergo «McJob», forse non è il massimo cui aspirare. Ma non è neppure quell’inferno di sfruttamento che siamo abituati a credere. Almeno è la tesi di Filippo Di Nardo, giornalista che si occupa di politiche del lavoro e che ha raccolto dati e informazioni sul campo. In McJob-Il lavoro da McDonald’s Italia (edizioni Rubbettino) descrive la propria «conversione» da convinto detrattore della multinazionale dell’hamburger a sostenitore dell’organizzazione del lavoro nei fast food con la «M» maiuscola nel nostro Paese. Fino a dire che dovrebbe diventare «un modello positivo da imitare».
Il libro mette in discussione molti pregiudizi e stereotipi negativi sul McJob. E lo fa con esempi concreti e numeri, che se paragonati a un bel po’ di realtà aziendali italiane fanno apparire il nostro sistema arretrato e ricco di ingiustizie. Punto primo: la meritocrazia. «Sapete cosa faceva - si legge nel saggio - un po’ di anni fa l’attuale amministratore delegato mondiale di McDonald’s, Jim Skinner? Friggeva le patatine in un ristorante della catena, aveva 17 anni.
E il suo predecessore, Charlie Bell? Lo stesso, preparava Big Mac. Chissà se un giorno anche il presidente della Fiat sarà un operaio dello stabilimento di Mirafiori o Pomigliano d’Arco». Un paradosso per spiegare come funziona la valorizzazione delle risorse nei fast food della catena dell’Illinois. Da noi il 90 per cento dei direttori dei ristoranti Mc ha iniziato come «crew», cioè dal gradino più basso, e il 39 per cento degli impiegati della sede centrale proviene dalle cucine. Le prospettive di carriera sono agevolate da un efficiente formazione interna, che segue il dipendente dal primo giorno fino ai ruoli più importanti. Il fiore all’occhiello è la Hamburger University dell’Illinois e in Italia c’è un gemellaggio tra l’azienda e l’Università di Parma.
Secondo punto: le opportunità di lavoro per donne e stranieri. Anche qui bastano i numeri. Il 18 per cento dei 14.500 dipendenti di McDonald’s Italia è rappresentato da lavoratori immigrati, che sono anche il 14 per cento dei quadri e dei dirigenti. Le donne sono il 50,8 per cento dello staff, ricoprono il 30 per cento dei ruoli di responsabilità della sede centrale e il 55 per cento dei posti di manager. Secondo Di Nardo, il McJob è tra l’altro uno dei pochi esempi in Italia di flessibilità «sana», quella che permette di conciliare lavoro e vita privata, famiglia, studio. È da dimostrare, ma è vero che il 75 per cento del personale ha un contratto part time, con le garanzie previste per legge.
Altro falso mito: il lavoro nel fast food come simbolo di precarietà e di mancanza di tutele. In realtà pare che il McJob sia stabile come pochi altri. L’83 per cento dei dipendenti della catena ha un contratto a tempo indeterminato, il restante 17 ne ha uno di apprendistato, che nel 99 per cento dei casi diventa senza scadenza. Tutti sono inquadrati nel contratto collettivo nazionale del turismo, quello applicato alla ristorazione, settore in cui in genere il lavoro nero imperversa. Ecco perché lavorare dietro il Mc bancone è una delle principali porte d’ingresso (in regola) nel mondo del lavoro per i giovani.
L’età media è di 28 anni tra i crew e di 30 tra i manager, quando molti ragazzi italiani sono disoccupati o alle prese con il far west dei cosiddetti «contratti atipici». Certo, è un impiego scelto da studenti o giovani mamme, in attesa di qualcosa di meglio. Le retribuzioni non sono invidiabili, 500 euro netti per lo staff per 20 ore settimanali e 1.100 per i manager di ristorante, più notturni, festivi e integrativi.
Inoltre 7 Mc italiani su 10 sono in franchising, vale a dire che la qualità del lavoro può non essere sempre garantita. Esistono però impieghi temporanei peggiori e per chi vuole restare le occasioni di scalare le gerarchie non mancano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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