«Lavoro autonomo addio Vi racconto di Matteo, tornato al posto fisso... »

Caro Direttore,
alcuni anni fa il mio amico Matteo ha abbandonato lo status di dipendente per mettersi in proprio a fare il falegname, arte in cui è davvero capace. In poco tempo ha messo su una bella attività: lo si trovava al lavoro dalle 8 del mattino alle, almeno, 20 di sera. Il weekend? Un altro modo di dire «lavorare». Dopo poco prese un apprendista che gliene combinò come Carlo in Francia. Essendo stato iscritto alla Cgil per tanti anni da dipendente, si recò presso i loro uffici per avere aiuto sentendosi apostrofare con «ora sei un padrone, cosa vuoi dal sindacato?». Questa mattina mi ha comunicato di aver chiuso: ha trovato posto come falegname in un’azienda che lavora per le navi. «Sai», mi ha detto, «finalmente sono tornato a fare l’orario fisso, dalle 8 alle 17. Guadagno poco meno di prima ma ho smesso di fuggire da finanza, annonaria, comune e ispettori vari, ho tempo da dedicare alla famiglia e vado di nuovo in ferie». Questa notizia, che farà gioire i compagni che da oggi possono vantare un padrone sfruttatore, ladro, evasore in meno e un onesto, potenziale sincero democratico in più, ha lasciato in me un grande, amaro vuoto. Il vuoto di un paese organizzato per incentivare solo la dipendenza, il parassitismo, la spensieratezza del diritto senza alcun dovere e relativo giusto guadagno. Il traccheggio giornaliero. La furbizia mentre i quotidiani si riempiono della gogna becera e ignorante delle statistiche sull’evasione per un conveniente «dagli all’untore!» a mobilitar le masse. Un paese che perde mesi a studiare come salvaguardare quattro (seimila) gatti di Termini Imerese ma si disinteressa delle decine di migliaia di negozi che hanno chiuso nell’ultimo anno lasciando a spasso il corrispondente di due Fiat e mezzo, polacchi inclusi. Una nazione che ha come unico sogno della vita la pensione e che invoglia un piccolo imprenditore di successo a chiudere per tornare al protettivo 8-17, incluso kit bandiera+fischietto+tamburo, è una nazione arida nell’animo, senza alcun futuro, finita, perfino nelle paludate stanze di Confindustria e dell’Abi. Solo questione di tempo, anche per loro. Anche io comincio a pensare di mandare tutto alle ortiche perché nessuno, davvero, ci aiuta. Nessuno più ci crede.

Non conosco il suo amico Matteo, caro lettore, ma quella storia la conosco bene. A casa mia venivano due elettricisti di una bravura e di una correttezza esemplari. Sempre tutto fatturato, sempre tutto in regola: efficienza e bravura, rispetto delle norme e simpatia. L’ultima volta che li abbiamo chiamati hanno detto che non lavorano più in proprio: sono diventati dipendenti di una grande società... Ognuno di noi conosce almeno un Matteo, ognuno di noi conosce la stanchezza che prende chi lavora in un negozio, e non sa che cosa siano busta paga sicura e ferie garantite, ognuno di noi ha incontrato un negoziante o un artigiano che ha confidato, come fa lei ora con me, la tentazione di buttare tutto alle ortiche. D’altro canto la forza di questo Paese nasce proprio dal fatto che tanti come lei non s’arrendono, nonostante lo sconforto. E dal fatto che per ogni Matteo che s’arrende ce n’è un altro che invece prova a costruire il suo sogno, con tutta la fatica e il rischio che ciò comporta.

Però lei ha ragione soprattutto su un punto che chiama in causa direttamente noi giornalisti: se 6mila operai rischiano il posto a Termini Imerese finiscono subito in prima pagina, se 20mila lavoratori autonomi rischiano il posto a Varese non ne parla nessuno. Noi abbiamo sempre cercato di rompere questo silenzio: d’ora in avanti staremo ancora più attenti per dimostrare che, almeno noi, ci crediamo ancora. Lei, se ce la fa, rinunci alle ortiche, almeno per un po’.

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