Il salario minimo non è la soluzione: ecco le alternative sul tavolo

La via non è percorribile. Ci sono valide alternative che andrebbero prese in considerazione. Tra queste, una forma evoluta di Fringe benefit, la rimodulazione dell'Iva su alcuni beni e il cuneo fiscale

Il salario minimo non è la soluzione: ecco le alternative sul tavolo
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Il governo non è convinto di imboccare la strada del salario minimo di 9 euro lordi all’ora. Non è soltanto un discorso politico, subentrano variabili di geografia economica non sempre facili da stimare. L’unico dato certo è che 4,6 milioni di lavoratori non raggiungono tale soglia e questo è sufficiente a rivedere le condizioni salariali, tenendo conto anche del fatto che in Italia esistono 919 diversi Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl). Questo vuole dire anche che, ogni eventuale soluzione, deve essere condivisa tra le parti sociali.

Va anche detto che in Europa ci sono altri Paesi nei quali non vigono politiche salariali minime e che, laddove ne esistono, non tutte raggiungono i 9 euro orari.

Le alternative al salario minimo

Alcune sono più percorribili di altre, ma il tema della retribuzione minima bussa con prepotenza alle porte dei temi sociali, quelli che la società decide di eleggere come prioritari, e una risposta solida è doverosa.

Si può, innanzitutto, vagliare l’ipotesi di garantire una retribuzione minima a quei lavoratori che non sono tutelati da un Ccnl, un numero relativamente esiguo di persone che operano in settori circoscritti, quali l’agricoltura.

Laddove vige un Contratto collettivo il tema è più spinoso, perché gli accordi vigenti sono stati firmati dalle forze sindacali coinvolte e dai datori di lavoro, rivedere questi accordi può essere impresa ardua.

Occorre quindi introdurre una diversa lettura del problema al fine di trovare soluzioni alternative.

Una è la riduzione dei prezzi dei beni di prima necessità, magari intervenendo sulla rimodulazione dell’Iva o con sostegni particolari. Altra soluzione è qualcosa che richiami il meccanismo dei Fringe benefit, ossia detassare le agevolazioni che il datore di lavoro concede ai propri dipendenti.

L’ultima ipotesi, la più annosa e discussa, è la riduzione del cuneo fiscale. In pratica si può cercare di rendere strutturale quel beneficio che il governo ha varato per l’ultimo semestre del 2023.

Stamane la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, intervenendo a "Non Stop News" su Rtl 102.5, ha dichiarato: "Il salario minimo è un bel titolo, funziona molto bene come slogan, ma nella sua applicazione rischia di creare dei problemi", aggiungendo di essere "disponibile ad aprire ad un confronto con l’opposizione" e sottolineando che la via da seguire è quella della contrattazione collettiva "da rafforzare". Sulle accuse di volere rinviare la questione del salario minimo, Meloni ha aggiunto: "Non stiamo rimandando alcuna posizione, hanno chiesto un confronto e per confrontarsi serve tempo ma poi si sa: come si fa, si sbaglia".

Cosa succede in Europa

Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia non hanno leggi sul salario minimo. A titolo di paragone, in Germania la legge impone una retribuzione minima di 12 euro l’ora, in Spagna si scende a 7,82 euro.

Il rischio per il mercato del lavoro di un’imposizione calata dall’alto aumenta nelle aree italiane che confinano con i Paesi dell’Est Europa. In Slovenia e in Croazia il salario minimo è inferiore a quello ipotizzato dall’Italia. Può sembrare poca cosa ma la Svizzera insegna che non è così e, il fatto che la Confederazione Elvetica non faccia parte dell'Unione non è importante, anche perché ha siglato gli accordi di libera circolazione delle persone.

Nel Cantone Ticino vigono contratti collettivi i cui salari minimi non sono sempre adeguati al potere d’acquisto. Un caso emblematico riguarda l’industria in genere, i cui lavoratori provengono per lo più dall’Italia. Lo stipendio minimo fa gola ai frontalieri, ossia coloro che attraversano il confine ogni giorno per andare a lavorare in Ticino, ma non garantisce un buon tenore di vita a chi vive in Svizzera.

La questione

geografica assume il suo peso anche in materia di retribuzioni garantite e - per quanto afferente a territori limitati nelle dimensioni - si può assistere a una sostituzione graduale dei lavoratori indigeni.

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