Il leader fantasma del Fli Che fine ha fatto Fini?

Dopo la scissione e la nascita di Futuro e Libertà, è arrivata la rivincita del Cavaliere con la svolta nel Pdl grazie alla scelta del Guardasigilli e una nuova organizzazione. Il presidente della Camera è un fantasma

Il leader fantasma del Fli 
Che fine ha fatto Fini?

Avendo partecipato alle vicende del terzo polo, quando ero vicesegretario del Pl e cioè fino al voto di sfiducia del 14 dicem­bre, ho frequentato fra gli altri il presidente della Camera con cui sono rimasto peraltro in ottimi rapporti personali. Ma un elemen­to balza oggi agli occhi e non può essere omesso: Fini, come pro­motore del terzo polo e oggetto del desiderio dell'opposizione, è sparito diradandosi, diventando diafano e trasparente, come il gatto di Alice nel paese delle meraviglie. Non è certo sparito come presidente della camera, ma il leader sembra scomparso, sostituito da un sosia.

Credo di poter decifrare il motivo politico di questo appannamento. Fini non ha saputo, o voluto o potuto assumere la posizione di un capopartito. Che questo appannamento sarebbe inevitabilmente avvenuto, lo capii il 29 gennaio scorso a Todi, dove furono convocati gli stati generali del terzo polo.

Lì, assistemmo a un suicidio politico: quello del terzo polo come entità politica, come poi i risultati elettorali recenti hanno dimostrato. Come avvenne questo suicidio? Per rinuncia alla leadership. Intendiamoci: non penso, oggi, che se una leadership fosse emersa in maniera netta, la vitalità di quella formazione avrebbe assunto oggi un aspetto più salubre. Ma dico che, senza una vera leadership, oggi non si va da nessuna parte, come dimostra il fatto che in ogni democrazia moderna - si tratti della Spagna di Zapatero o delle presenze vincenti di Obama, di Sarkozy o della Merkel - una posizione politica vince o perde secondo se vince o perde il suo leader. Berlusconi, con tutti i suoi difetti che ho criticato tante volte, ha vinto e ha perso mettendoci la sua faccia. E Prodi lo batté due volte mettendoci la propria faccia peraltro fragile: le prima volta, nel 1998, dovette cedere il passo a D'Alema e la seconda crollando a causa della maggioranza risicata che si ritrovò al Senato.

Ma il punto che oggi si deve sottolineare a parer mio è che Gianfranco Fini, quale che fosse la sua potenzialità politica, l'ha persa per averla gettata alle ortiche. Controprova: oggi i telegiornali d'opposizione, specialmente il Tg3 che nel passaggio fra inverno e primavera rigurgitavano di dichiarazioni e presenze del Fli, oggi ignorano sia il presidente della Camera sia Italo Bocchino, o Briguglio. Sembra che sia passata un'era geologica, e invece sono passate soltanto alcune settimane, appena una stagione e mezza: col caldo, quello che sembrava un imponente iceberg si è fuso come un gelato al sole.

Come mai Fini, e non soltanto lui, non ha capito di aver costruito un vicolo cieco? La mia è la risposta di un testimone che partecipò credendoci. Ecco che cosa vidi a Todi: per una sciocca reazione antiberlusconiana prevalse l'idea di buttare con l'acqua sporca, anche il bambino. Il bambino era l'idea maggioritaria a guida monocratica, o comunque con un leader, uno solo, visibile e riconoscibile, come si forma e si mostra in ogni democrazia moderna.

Prevalse invece un birignao sinistrese che si esprimeva con mantra prefabbricati, più o meno così: il berlusconismo deve essere spazzato via dalla faccia della terra, non soltanto battendo politicamente Berlusconi, ma liquidando il concetto stesso di leader politico, parola abominevole da equiparare al fascismo e al caudillismo: basta con le facce riconoscibili, torniamo alla palude democristiana in cui tutto era collegiale, collettivo, fratesco. Ne sentii a decine quel giorno di interventi di questo genere ed erano tutti uguali: per «battere Berlusconi » bisogna togliersi dalla testa di creare un antagonista all'attuale presidente del Consiglio ma creare una specie di Russia dei primi soviet: i consigli di fabbrica della politica, che non portano da nessuna parte. E Fini, con mia sorpresa, non ebbe la forza, il coraggio, il colpo di reni di dire: il leader lo faccio io. E non lo fece anche perché di leader nel terzo polo ce n'era anche un altro, e con più numerose truppe: Pier Ferdinando Casini, un altro politico che nel momento di fondazione terzopolista non ritenne di scendere in campo come leader per non mettere in crisi, cosa che prima o poi sarebbe avvenuta per questioni di logica politica, l'alleanza con Fini.

Ma mentre Casini, leader di un partito consolidato, vale quanto valgono i suoi voti, Fini non aveva e non ha voti se non quelli ipotetici e ipotecati dal futuro, cioè in definitiva poco o nulla.

E il risultato è stato la modesta performance elettorale, l'amplesso interrotto con una sinistra che non sa scegliere e non può scegliere fra i propri candidati o gli outsider Pisapia e De Magistris, con il finale di partita rappresentato da Di Pietro, che ha scarpe grosse e un cervello molto fino, che è entrato di prepotenza nell'elettorato centrista e moderato di destra, andando a pascolare dove non ha pascolato Fini. Uno si può chiedere se l'errore di Fini sia stato caratteriale, l'eterno tentennamento, o qualcos’altro che gli abbia messo piombo nelle ali. Che cosa lo ha bloccato? Certamente la decisione sbagliata di mantenere a tutti i costi, con il coltello fra i denti, la presidenza della Camera, pur di non renderla all'odiato Berlusconi.

E lì, ma non soltanto, Fini si è tagliato le gambe da solo: deciso a non mollare lo scranno presidenziale, ha impedito a se stesso di comportarsi apertamente da leader. Non apparendo un vero leader Fini è andato impallidendo come il gatto di Cheshire, appollaiato sul ramo di un albero e di cui rimase soltanto il dentato sorriso.

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