Prima il botto pirotecnico, poi la correzione di tiro, non una rettifica ma quasi. Quel che rimane dopo la lunga giornata di Umberto Bossi, iniziata con un faccia a faccia con Berlusconi e poi via in volo a Milano per un vertice ristretto in via Bellerio, non è però, come sembrava minacciare l’intervista del leader leghista alla Padania, una possibile (e clamorosa) rottura col Pdl. Tutt’altro, l’alleanza - filtra nel pomeriggio dal quartier generale leghista - non sarebbe in discussione, ma dopo l’attacco di Fini alla Lega e al suo dogma politico (il federalismo), serviva un messaggio forte per la pancia dell’elettorato padano. E il messaggio c’è stato: «Siamo di fronte a un crollo verticale del governo e probabilmente della fine di un’alleanza, quella tra Pdl e Lega - spara Bossi nella conversazione col direttore del quotidiano leghista Leonardo Boriani -. Fini ha rinnegato il patto iniziale, ha lavorato per la sinistra come un vecchio gattopardo democristiano. È palesemente contro il popolo del Nord, a favore di quello meridionale. Berlusconi avrebbe dovuto sbatterlo fuori subito».
Poi la parte più sorprendente dell’intervista, la più difficile da decifrare: «Finita la stagione del federalismo, un concetto abbandonato, dobbiamo iniziare una stagione nuova, un nuovo cammino del popolo padano. Saremo soli, senza Berlusconi. La gente non digerirà facilmente la mancata conquista del federalismo e noi, Lega, dovremo comportarci di conseguenza». E dunque? Un ritorno alla Lega secessionista del ’97? Qual è il «cammino solitario» che Bossi ha in mente? Un chiarimento, anche se molto parziale, arriva dopo qualche ora dallo stesso Bossi, che torna a vestire i panni del paciere. All’Ansa Bossi spiega che la Lega non vuole «gettare benzina sul fuoco», e che lui è «per la mediazione». «Ma la gente del nord, i leghisti, sono arrabbiatissimi, non ne possono più di sceneggiate, rinvii, tentennamenti... Noi vogliamo fare le riforme, i miei vogliono le riforme, la gente è stufa». Come sottofondo costante ci sono le urne, la possibilità di un voto anticipato, che la Lega tiene come extrema ratio nel caso le cose si mettessero male, ma che certo non esclude. «Senza riforme bisogna andare alle elezioni anticipate» dice Bossi in serata. «Il governo va avanti ugualmente nonostante i propositi bellicosi di Fini. Ma Fini ha esagerato, ha raccontato delle bugie» e dovrebbe dimettersi «se è un uomo d’onore». Perché «come presidente della Camera è un problema».
Insomma, la sparata mattutina di Bossi come atto dovuto verso il popolo della Lega, ma anche come avvertimento (forse in parte concordato col Cavaliere) per far capire ai potenziali parlamentari pro-Fini che non c’è spazio per una maggioranza traballante e litigiosa e che lo scranno non è un diritto naturale. Una tipica mossa bossiana, che alza spericolatamente il tiro e poi rapidamente lo riabbassa, e che in effetti qualcosa l’ha già portato a casa: la rassicurazione da parte del premier sul federalismo. «La Lega è un alleato fedele, ma Fini sta tirando troppo la corda e noi vogliamo garanzie sulle riforme» conferma il deputato del Carroccio Giacomo Stucchi. «Bossi teme che Fini imponga una serie di voti segreti che possano nascondere insidie. Come è già successo sull’immigrazione», spiega Flavio Tosi, sindaco di Verona.
Sulla linea di moderazione e attendismo si muovono gli altri fedeli di Bossi, che ieri orbitavano attorno a via Bellerio. «È vero, c’è preoccupazione nel nostro elettorato perché questa vicenda ha distolto l’attenzione dalle riforme - spiega Marco Reguzzoni, vicepresidente dei deputati leghisti -. La Lega però non entra in un problema che è del Pdl e che devono risolvere loro. A noi interessano le riforme. Una rottura? La escluderei, perché il Pdl è rappresentato da Berlusconi, non certo da Fini». Anche il presidente del Veneto Luca Zaia insiste sul leitmotiv: «Tutta questa vicenda ha solo come effetto negativo quello di rallentare le riforme. Sono preoccupato».
Intanto prende piede un nuovo grande slogan leghista, che già risuona nelle onde di Radio Padania, affidabile indice dell’umore padano (in questo momento, sull’«incazzato» andante): il partito del Sud, il partito del non-cambiamento e dei privilegi che si oppone alla riforma federale dello Stato. Dentro ci sono Fini, come primus inter pares, ma poi anche l’Udc, i centristi di Rutelli, forse i veltroniani, i famosi poteri forti, e insomma lo spettro del «democristianume» da Prima repubblica che cerca di ostacolare il cammino del Carroccio.
Dunque la Lega riconferma la sua fedeltà a Berlusconi, come garante del processo riformatore, ma lascia capire che se starà a guardare non lo farà passivamente.
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