Il legame tra mamma e papà più forte della separazione

Non avrei mai immaginato che un'affermazione per me quasi ovvia, come che è meglio una famiglia con qualche elemento di conflittualità interno piuttosto che nessuna famiglia, potesse scatenare un putiferio di dibattiti e di interviste radiofoniche.
Anche con qualche polemica, da parte di chi rivendica il diritto divenuto sacrosanto di sciogliere ogni vincolo, quando è diventato scomodo, magari nel nome del preminente interesse dei minori, vittime di insopportabili conflittualità tra gli adulti.
Peccato che queste conflittualità si prolunghino ben oltre la fine della convivenza, con bambini utilizzati come proiettili o manganelli dall'uno sull'altro genitore.
Ciò nonostante, il legame di co-genitorialità rimane tuttora uno dei vincoli più forti che possono finire a lungo, e forse per la vita, un uomo e una donna.
Mi è capitato di vedere, anche recentemente, al capezzale di un uomo anziano morente un'unica persona presente e interessata. Un'antica moglie, abbandonata molti anni prima in un pirotecnico e reciproco conflitto, ma la ragione che li ha riuniti in questo momento apicale della vita era semplice e umanissima: «Come posso lasciare morire da solo e abbandonato quello che comunque è il padre dei miei figli?».
Essere genitori insieme delle stesse creature è un legame comunitario che difficilmente può essere radicalmente spezzato. Occorrerà re-incontrarsi per lo meno in una Prima Comunione, in un matrimonio, o al battesimo del primo dei nipoti. Intendo dire insomma, che la crisi della famiglia, nei suoi aridi numeri statistici, un divorzio su tre matrimoni, un milione e mezzo di bambini figli di separati, non nega il forte e disperato bisogno di relazione e di comunità stabile, che pulsa inesorabilmente nel profondo del cuore degli uomini e delle donne.
E credo che sia in questo bisogno di comunità e comunione (nel loro vero etimo con-munus, cioè condivisione di un dono), che sta anche la cifra di una esplosiva malaria sociale, la cui febbre brucia in una quantità di sintomi visibili.
Un guru fanatico abusa insieme madri sole e figlie bambine, nella evidente latitanza o totale assenza di padri.
Uomini, partner, ma non padri, assistono indifferenti o complici all'uccisione di un neonato da parte di una madre pazza di cocaina, di solitudine e di disperazione. Persino un ruspante ragazzotto del nord est, che raccoglie sorprendentemente centinaia di migliaia di supporter in un reality televisivo, dichiara candidamente che il pubblico lo ha amato perché lui era oggetto di aggressioni da due ragazze «poco di buono», oltre che da parte di tanti noiosi «diversi» del politicamente corretto. Qualche anima bella ha visto in questa sorta di ribellione un po' neotradizionalista di un'Italia minore, inquietanti segnali di un totalitarismo strisciante da rozza «maggioranza silenziosa».
Credo che sia invece semplicemente un diffuso e disperato bisogno di ritrovare alcuni grandi valori condivisi, senza i quali un'umanità fatta di schegge impazzite e di individui isolati, ora edonisti, ora più frequentemente disperati, è destinata alla catastrofe.
In una comunità vera, poco importa che si tratti di un paese o una metropoli, di una cascina o di un condominio a ballatoio, di bambini, di adulti o di vecchi (meglio se tutti insieme), le persone crescono e si correggono, oltre che sostenersi nella relazione reciproca. Nell'individualismo esasperato prevale invece soltanto la fuga e l'asocialità, l'invidia e la paura.
La morte poi delle grandi ideologie utopistiche ed egalitarie dei comunismi planetari e dei loro derivati, ha lasciato il posto soltanto a un culto idolatrico di tutti gli strumenti orwelliani di controllo e punizione.
Come se la legge potesse sostituire lo Spirito e le Procure della Repubblica esercitare una pedagogia popolare, affidata un tempo alle parrocchie, agli oratori o anche alle case del popolo.
Proprio per questo credo che ci sia qualche cosa che va ben oltre la retorica delle opportunità, nel lanciare una parola d'ordine come: l'amore vince l'odio e l'invidia sociale. Detto da un grande tycoon televisivo approdato alla politica può sembrare un paradosso o tutt'al più retorica tattica e astuta.
È in realtà un'intuizione vagamente profetica.
La parola amore, così abusata ma anche così profanata, rappresenta in realtà il primo, l'ultimo e il più ineludibile dei bisogni. Ha come corollario indispensabile la libertà, perché non si può amare a comando. Non è alternativo ma neppure può essere vicariato o sostituito dalla giustizia o dalla fratellanza coatta.
Non a caso era, ed è, la qualità fondamentale che si attribuisce, alla prima e insostituibile cellula di tutte le aggregazioni umane, base prima di ogni possibile comunità: la famiglia naturale e feconda di un uomo e una donna che accolgono e accudiscono la vita in tutte le sue declinazioni.
Non è passatismo nostalgico, né cattolicume ideologico. Bensì il bisogno radicale di un popolo che, dal crollo delle grandi ideologie del Novecento, non ha ancora trovato lidi più sicuri in cui rifugiare le proprie inquietudini delle grigie aule dei tribunali.
Sia che si tratti di dolorose cause per disfare sanguinosamente famiglie.

Sia che si rappresenti il tempio di una improbabile dea ragione della giustizia assoluta in questo mondo, circondata di totem, feticci e osceni oggetti di culto a forma di microspie, centrali di intercettazione e immensi faldoni di dossier voluminosi e onnicomprensivi come una tragica biblioteca di Babele degna di Louis Borges.

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