È come la pace. Chi non la vuole? Ma c'è chi la vuole costi quel che costi. Anche alla rinuncia dell'autodifesa, anche all'annientamento, pur di non rispondere alle armi con le armi e salvare così il principio pacifista. Molto nobile. D'altronde non tiene sempre banco la massima (apocrifa) di Voltaire «Non accetto le tue idee ma sono pronto a dare la vita perché tu possa esprimerle »? Sono belle e alte parole che tuttavia restano parole, senza che mai abbiano avuto l'eroica conferma nella prova dei fatti. Salvo che nella pratica dell'aborto, che è e resta un omicidio, anche sul dare la morte siamo tutti d'accordo. Non si uccide. Il non uccidere è del diritto naturale, è precetto cristiano, è norma giuridica. Ma quel civilissimo tabù non è mai stato un assoluto. Si può uccidere per legittima difesa, ad esempio, essendo diritto morale, religioso e giuridico la salvaguardia della propria vita. Francesco Buonavolontà, il ragazzo di Acerra che ha soppresso il padre con quattro coltellate ha ovviamente commesso un reato grave. La legge lo condannerà per quello che ha fatto, ma è condannabile anche dal tribunale delle coscienze? La vita di un essere umano è inviolabile, d'accordo, ma quanto restava di «umano» in Mauro Buonavolontà, alcolizzato, drogato e che massacrava di botte la moglie sotto gli occhi dei figli? E come non nutrire un senso di autentica solidarietà nei confronti del figlio che difende la madre dall'assalto cieco di un bruto, di un animale deciso a mandarla all'ospedale, se non proprio al cimitero? Si dirà e si dice e si ripete, che nessuno può farsi giustizia da solo. Vero. Si è però talmente esasperato il risvolto illuminista di quel principio da praticamente abrogare, appunto, l'antico e saldo diritto alla legittima difesa, ora giudicata dai tribunali sempre in «eccesso» e quindi non più tale. Ma quel che è peggio, ci si è proiettati sempre più in alto nell'empireo utopico della giustizia terrena senza tener conto che intanto sulla terra il tenore della corretta e civile convivenza precipitava sempre più in basso. Non c'è il minimo dubbio che il giovane parricida si sia mille e mille volte augurato che fosse l'«autorità», che fosse la legge a fermare la mano violenta del padre. Ma da lassù, dall'empireo nel quale ci si culla, casi come quello di Mauro Buonavolontà sono affrontati con il casuale, disavveduto intervento dell' assistente sociale, coi pannicelli caldi e politicamente corretti del «dialogo» e del «confronto», con la manica larga della giustizia, i domiciliari, la libertà vigilata e tutte le altre belle cose griffate come «umanitarie». Mauro Buonavolontà, pace all' anima sua, non è mai stato visto come un uomo pericoloso da tenere strettamente d'occhio e da severamente punire quando bastonava la moglie. Ma piuttosto quale povera e incolpevole vittima di un «disagio sociale», formula che da tempo tutto giustifica e tutto perdona. Si è finto così per dimenticare le vere vittime di ben altro «disagio»: la moglie e i figli. Stando così i fatti, che uno di questi, esasperato nel vedere il padre picchiare a sangue la madre restando impunito, abbia reagito come ha reagito addolora, ma non sbigottisce.
Il «c' era da aspettarsi che finisse così » dei vicini della famiglia Buonavolontà esprime infatti l'ineluttabilità di quel gesto, al quale non si era presentato e non si presentava rimedio. Un gesto che in quanto tale la legge deve pur condannare. Non, però, il tribunale delle coscienze.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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