Leggere i classici non per dovere ma per libera scelta

Ho letto recentemente L’arte di ascoltare di Plutarco, perché stavo risalendo la via di una celebre immagine di Montaigne: «Insegnare non significa riempire un vaso, ma accendere un fuoco». La fonte è appunto Plutarco: «La mente non è un vaso da riempire, ma, come la legna da ardere, ha solo bisogno di una scintilla che l’accenda e le dia l’impulso per la ricerca, e un amore ardente per la verità»; e poi, sono le battute finali del trattato: «Un buon ascolto è il punto di partenza per vivere bene». Oggi, disancorati come siamo da ogni rapporto imitativo e prescrittivo con i classici, abbiamo appunto bisogno di ritrovare l’elemento vivifico ed energetico dell’«ascolto». Dobbiamo riscoprire (...) il carattere «elettrico» di certe letture. Non è più il tempo di impostare un dibattito su “cosa sia un classico”, su cosa significhino “civiltà” o “maturità”, sui motivi per cui alcuni momenti della storia umana portino frutto e altri no. Ormai dobbiamo cercare una diversa forma di rapporto con il classico. Detto altrimenti, non sono gli dèi ad averci abbandonato (secondo le parole del filosofo), ma i greci e i romani. Una perdita simile sembrerebbe nefasta, ma da un punto di vista storico, invece, tale situazione può essere trasformata in privilegio. Forse per la prima volta, dopo duemila anni, alcune generazioni possono dirsi finalmente “libere dai greci e dai romani”, come recitava quel famoso verso di un poeta minore, Jean-Marie Clément (Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?). Verso felicissimo, peraltro, in cui pare di sentire il grido di dolore levato da studenti e letterati, incatenati ai classici come schiavi alla macina. Proprio questo venir meno di un atteggiamento normativo, ci offre la possibilità di stabilire, con i greci e con i romani, un rapporto davvero libero, fondato sulla scelta. Un rapporto che potrebbe ribaltare – per la prima volta nella storia dell’Occidente – la nostra relazione con questo passato perpendicolare, con questo immenso promontorio che si erge alle nostre spalle. I classici versano in un momento di abbandono, ma proprio tale abbandono può offrirci una straordinaria occasione: possiamo eleggere i classici a interlocutori, senza essere obbligati ad accettarli. Poter scegliere, senza dover subire, è un autentico dono. Ecco, noi abbiamo il dono di essere stati abbandonati (...)
Ma tornando alla nostra eccezionale “libertà” di fronte ai classici, libertà realmente “epocale”, bisogna dire che sarebbe straordinario se la scuola riattivasse tutta l’ampiezza dello spettro espressivo della letteratura greca e latina. Sono convinto che si otterrebbe, da parte dei ragazzi, una risposta entusiastica. Un esempio personale. Una quindicina di anni fa, Vincenzo Guarracino propose per la Bompiani quattro volumi di scrittori greci e latini tradotti da scrittori contemporanei. Per quanto mi riguarda, io lavorai a quattro mani con una antichista, perché non mi sarei mai sentito di affrontare quella prova senza una guida (del resto, venivo da una splendida esperienza con Francesca Corrao, insieme alla quale avevo tradotto una scelta di poeti arabi dell’anno Mille). In quella occasione ho potuto scoprire autori senz’altro minori, laterali, secondari, ma di estrema vivacità; autori che potrebbero svolgere un ruolo assai proficuo nelle scuole. Penso a Sinfosio e alla grande tradizione degli indovinelli antichi, per far capire ai ragazzi il rapporto fra poesia ed enigmistica. Insomma: le potenzialità sono immense, ma l’ampiezza della tradizione risulta troppo spesso sacrificata a scelte prevedibili. Occorrerebbe riattivare canali di comunicazione oggi ostruiti, riaccendere fuochi nelle praterie – ovviamente senza far mancare gli Alessandrini, Catullo e in generale la poesia erotica, di fronte alla quale la reazione degli studenti è immediata. La curiosità è sempre un ottimo reagente. E se funziona, la si può utilizzare. Soprattutto nell’àmbito della didattica, l’empatia dovrebbe essere accentuata. Bisognerebbe – in termini grossolani – leggere l’Odissea come se fosse L’Isola del tesoro, nei limiti funzionali di ciò che vogliamo ottenere da un giovane studente: la passione.

Quel che agisce, quello che “scatta”, al livello più immediato della lettura, è l’entusiasmo di un ragazzo che a quindici anni scopre Stevenson, o scopre Omero. Si tratta di una specie di energia sepolta che non attende altro se non di essere liberata.

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