Leggere non solo è inutile, ma fa anche male

La verità, contrariamente a quello che pensa la maggior parte della gente, è che i libri sono pericolosi. Non soltanto spesso sono inutili, ma addirittura possono fare danni, persino peggiori di quelli prodotti dall’ignoranza. Leggere fa male, molto male

La verità, contrariamente a quello che pensa la maggior parte della gente, è che i libri sono pericolosi. Non soltanto spesso sono inutili, ma addirittura possono fare danni, persino peggiori di quelli prodotti dall’ignoranza. Leggere fa male, molto male.

È un concetto difficile da accettare, soprattutto in tempi come i nostri di bestsellerismo imperante, di editoria over-size, di mega-store pieni zeppi di «novità», di super festival del libro e della letteratura (dove tutti vogliono vedere, già meno ascoltare, quasi mai leggere). Un concetto difficile da accettare in un Paese come il nostro dove si pubblicano tra i 60 e i 70mila libri all’anno ma dove meno del dieci per cento degli italiani legge più di un libro al mese. Un concetto difficile da accettare in questo sovraffollamento di titoli dove l’abbondanza soffoca la qualità e le parole scritte superano quelle lette.

Un concetto difficile da accettare ma sul quale vale la pena riflettere se a suggerirlo è una delle menti più sottili e brillanti del suo tempo, come lo fu Arthur Schopenhauer (1788-1860). Il suo scritto Sulla lettura e sui libri (in realtà un paragrafo dei celebri Parerga e paralipomena, che oggi la casa editrice La vita felice pubblica in una edizione «autonoma» con testo tedesco a fronte, pagg. 60, euro 6,50) è, in questo senso, illuminante. Una vera arte del non leggere. Il filosofo tedesco, attorno al 1850, metteva in guardia dal leggere. Soprattutto dal leggere troppo e dal leggere male. «Quando leggiamo, qualcun altro pensa per noi: noi ripetiamo solamente il suo processo mentale... quando si legge ci è sottratta la maggior parte dell’attività di pensare... Quindi accade che chi legge molto e per quasi tutto il giorno, piano piano perde la facoltà di pensare. Questo è il caso di molti dotti: hanno letto fino a diventare sciocchi». E più avanti: «Tanto più si legge, tanto meno ciò che si è letto lascia tracce nello spirito: diventa come una lavagna su cui si è scritto troppo e in modo confuso».

Schopenhauer è implacabile: dice che leggere paralizza la fantasia, che siamo circondati da «cattivi libri» («nove decimi della nostra attuale letteratura non ha altro scopo che spillare qualche tallero dalle tasche»), che occorre leggere solo i classici e semmai rileggerli due, tre, quattro volte. Perché la vera letteratura «produce in un secolo in Europa solo una dozzina di opere durature». E poi è anche questione di tempo: «Sarebbe una bella cosa comprare i libri se si potesse comperare il tempo per leggere, ma si scambia per lo più l’acquisto di libri con l’acquisto del loro contenuto».

A questo punto, allora, torna utile anche un altro consiglio, non di un filosofo tedesco ma di uno scrittore italiano: Luciano Bianciardi (1922-1971). Il quale nelle sue «Lezioni per diventare un intellettuale, dedicate in particolare ai giovani privi di talento» (uscite a puntate sul settimanale ABC nel 1967) spiega per filo e per segno, con la consueta ironia e l’altrettanto consueto pessimismo, come si può diventare «un uomo di successo nel mondo della cultura» anche senza cultura, appunto.

Insomma, cari intellettuali (ancora in pectore o già in auge), come intima il titolo della nuova edizione in volume di quelle preziose lezioni (Stampa Alternativa, pagg. 94, euro 9): Non leggete i libri, fateveli raccontare.

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