«Leghiamo i redditi alla produttività»

«No alle rigide gabbie salariali del passato, calate dall’alto: sì invece a una contrattazione aziendale che tenga conto anche delle differenze territoriali». Così Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica all’Università Cattolica di Milano, affronta il rapporto fra salari e territorio, uscendo dai vecchi schemi e puntando invece sulla novità rappresentata dalle regole contrattuali appena approvate, che legano retribuzioni e produttività.
Le gabbie salariali sono quindi un’idea irrealizzabile?
«Bisogna anzitutto chiarire che cosa si intende esattamente quando parliamo di gabbie salariali. Dal punto di vista tecnico, si tratta di un istituto tipico dell’Italia degli anni ’50 e primi anni ’60: a livello nazionale, le parti sociali decidevano di differenziare le retribuzioni minime nelle varie parti del territorio. Se è di questo modello che si sta parlando, bisogna dire che oggi non è più praticabile, perché è troppo burocratico. Se invece si vuole intendere una contrattazione decentrata, che tenga conto anche delle differenze territoriali, allora è un altro discorso».
E questa contrattazione territoriale è possibile?
«In teoria sì, e del resto ci sono già esempi concreti all’estero, prima fra tutte la Germania, dove la dimensione territoriale della contrattazione di categoria esiste da tempo. Tutti i modelli, però, devono essere calati nella realtà: e quindi dobbiamo guardare all’Italia così come è ora, con le difficoltà che ci sono, e con le differenze che esistono tra le varie regioni, Nord e Sud in primis. Ed è qui che si può aprire un ampio spazio per la contrattazione aziendale».
In che modo?
«Partendo dalla realtà: mediamente le aziende del Sud possono avere maggiori costi, operano su un mercato del lavoro con grande abbondanza di disoccupati, ma hanno il vantaggio di trovarsi in un territorio dove il costo della vita è più basso. Quindi, potranno dare aumenti minori a livello di salari accessori, cioè quelli aggiuntivi rispetto al minimo fissato dal contratto nazionale, e utilizzare il danaro risparmiato ad esempio per gli investimenti».
Ma il «fattore territorio», come e da chi verrebbe definito?
«Attenzione: non si tratta di introdurre un terzo livello di contrattazione, ma di applicare al meglio i due livelli che i nuovi accordi contrattuali prevedono. Quindi, esiste un livello retributivo nazionale, che spetta a tutti, dovunque vivano: e da lì si parte per il secondo livello di contrattazione, quello aziendale, che lega il salario alla produttività. E proprio perché il baricentro della trattaiva, per così dire, si sposta in azienda, il fattore territorio entra inevitabilmente, direi implicitamente, nel meccanismo che stabilisce la maggiore o minore entità del salario accessorio».
E se invece che di aziende parliamo di pubblico impiego, che cosa succede?
«Il meccanismo non cambia. Anche la contrattazione pubblica ha una componente aziendale, che può e deve essere usata virtuosamente. Ci sono amministrazioni pubbliche che hanno autonomia nella definizione del salario accessorio; e qui può benissimo entrare il fattore territoriale. Per fare un esempio, un Comune della Calabria potrà dare meno salario accessorio rispetto a un Comune del Veneto, e fare investimenti con i soldi risparmiati».
Ma se questo non accade?
«È vero che a volte succede il contrario, cioè che in realtà il salario accessorio in Calabria è più alto di quello del Veneto: e qui devono entrare in gioco degli strumenti di intervento, che possono essere coercitivi, o, preferibilmente, di incentivi.

Del resto, anche i salari dei lavoratori tedeschi sono diversi da quelli portoghesi: ma non si tratta di condizioni immutabili. Quanto più i territori si avvicinano in termini di produttività e competitività, tanto più si avvicinano anche i salari».

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