Odiare il mondo per imparare ad amare se stessi. Non un mondo qualunque, bensì quello della Legione Straniera. Tony Sloane è uno dei tanti ragazzi che ci hanno provato e ci è riuscito, per cinque lunghissimi, estenuanti, sanguinosi anni. Quando entrò era un diciottenne allo sbando, oggi è un uomo profondamente diverso che vive a contatto con la natura e fa meditazione. Non ha rimorsi, né rimpianti. Non condanna la Legione Straniera, anzi. «Ripenso a quegli anni con riconoscenza, perché mi hanno dato il senso di un’appartenenza che nella vita normale non avrei mai trovato», confida al Giornale. L’appartenenza a un club esclusivo, il corpo militare più duro del mondo, che ancora oggi attrae migliaia di uomini di ogni nazionalità in cerca di riscatto. Ragazzi cresciuti senza famiglia, come lui; disoccupati squattrinati; disperati da ogni angolo d’Europa, ma anche agiati americani e giapponesi, approdati lì apparentemente senza un perché.
Sloane narra la sua avventura nel libro Legionario. La mia vita nella Legione Straniera (Piemme, pagg. 302, euro 16,50, traduzione di Franca Genta Bonelli). Un racconto schietto, senza analisi psicologiche o sociologiche, che ha un solo scopo: trasmettere con la narrazione un’esperienza quasi disumana. «Dopo aver smesso di servire la Francia - afferma - sono entrato nelle forze speciali dell’esercito britannico e ho partecipato ai conflitti nei Balcani, in Irak, in Afghanistan. Ma una guerra vera è meno dura degli addestramenti della Legione Straniera».
Giornate che iniziano alle cinque del mattino e finiscono alle undici di sera per quattro mesi di fila, senza nemmeno 24 ore di riposo. «La libertà di scelta non esisteva: se ci si appoggiava a un muro si riceveva l’ordine di fare un bel po’ di flessioni». Un giorno un ragazzo tentò di disertare, ma lo catturarono. Era bene in carne. Quando Tony lo rivide, dopo qualche settimana, «era magro, addirittura scheletrico. Sembrava un sopravvissuto dei campi di prigionia nazista». In carcere veniva picchiato tutti i giorni e «al momento del pasto, le guardie lo insultavano, gli dicevano che era un gran maiale e buttavano il cibo sul pavimento sozzo della cella».
Violenza. Sempre, solo violenza. Per spronare, per punire, come a un giovane che, esausto, iniziò ad arrancare durante una marcia. «Il caporale gli si avvicinò e lo riempì di pugni in faccia» tra l’indifferenza dei commilitoni. «Nessuna solidarietà, solo disgusto - scrive Sloane -, se non sei in grado di tenere il passo non dovresti arruolarti. Questa è la Legione straniera». Riuscire in un’impresa che la maggior parte degli uomini non saprebbe sopportare; ecco la missione. Ma la consacrazione in un club tanto esclusivo ha un prezzo alto: «Se prima di entrare in me c’era stato qualcosa di buono, ora quel poco era relegato nei meandri più oscuri del cervello e per anni non sarebbe emerso». Tony ripete «che una spugna assorbe l’acqua. Tutti noi siamo il risultato dell’ambiente che ci circonda e il modo in cui siamo stati trattati si rivela in quello con cui trattiamo gli altri. Negli anni successivi dovetti riflettere a lungo prima di rendermene conto e fino ad allora la mia vita fu pura aggressività. Ero uno strumento, un killer, una macchina da morte che non pensava».
Con il passare dei mesi le prove diventavano sempre più dure. Marce di tre giorni e tre notti, con al massimo due ore di sonno. D’inverno in montagna a 15 gradi sotto zero, d’estate in Africa a più 40. «Se ci ripenso oggi, furono queste la esperienze più massacranti, una volta temetti di perdere le gambe per congelamento, un’altra di morire disidratato».
Nulla veniva simulato. Al corso di sopravvivenza una sera il menu prevedeva sardine pescate il giorno prima. Intere, con le budella e tutto il resto. Il tenente decise che le reclute dovevano mangiarle in ginocchio con le mani dietro la schiena. E lui, crudelmente, lì ad imboccarle. La coda, il cuore, lo stomaco: tutto giù. «Il sapore era disgustoso, non avevo mai mangiato una cosa tanto putrida», ricorda Tony.
Dopo un anno e mezzo i primi congedi prolungati, quattro-cinque giorni fuori dalla caserma. Vacanze di squallore. «Iniziai a entrare nel giro dei festini e delle bevute. Il mio consumo di alcol avrebbe scandalizzato quell’ex ubriacone di mio padre», rievoca Sloane. Risse tante, prostitute anche. E guai a innamorarsi delle ragazze perbene che ogni tanto si lasciavano sedurre da quei giovanotti dalle pelle abbronzata e dai muscoli esplosivi. «Eravamo legionari, l’affetto e la moralità erano virtù che non conoscevamo più». Le bottiglia di whisky e la solidarietà dei commilitoni, solo questo contava; anche se poi con quegli stessi compagni ci si picchiava selvaggiamente sotto lo sguardo compiaciuto di un sergente. Faceva parte delle regole.
Il combattimento corpo a corpo, per essere efficace, doveva essere reale. «Imparammo a difenderci da pugni e calci e a contrattaccare, picchiandoci senza ritegno. E con gusto. Talvolta sulla neve ghiacciata, a mani nude. Venti minuti di assalti, a cui reagivamo con pugni al volto, gomitate nella schiena, calci nei testicoli e nello stomaco. Sentire il tuo rivale gemere ti faceva star bene». I capi erano così spregevoli che ogni tanto qualcuno reagiva. Anche Tony un giorno colpì l’odiato Bleu, ma si ritrovò con il naso rotto e sanguinante, costretto a far flessioni, mentre i superiori lo prendevano a ginocchiate e gli pestavano le mani. In qualunque esercito tutto questo sarebbe tortura. Laggiù no. È la norma.
Sloane ha resistito per cinque anni, il tempo necessario per essere considerato un vero legionario. Poi ha scelto di servire l’esercito di Sua Maestà in cui, viste le credenziali, fu accolto subito. Oggi assicura di non aver ucciso nessuno, ma «che ciò è ininfluente; perché mentalmente ero pronto ad ammazzare e lo avrei fatto senza remore». Insiste nel dire di aver capito il senso della vita: non beve più, è pacato, riflessivo, tollerante.
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