Enrico Groppali
Altolà, Signori Ammiratori della storica compagnia dei geniali operai di Legnano che, dal'49 all'86, spopolarono Milano facendo accorrere al loro tempio dell'Odeon (oggi tramutato in un'elegante multisala) centinaia di fans che andavano in deliquio assistendo ai furiosi battibecchi della sciùra Teresa immortalata da Felice Musazzi in accesa disputa con la biondissima figlia (alias Mabilia) di Tony Barlocco. Facciamo un passo indietro, volete? E torniamo al '92 ossia alla dolente data della scomparsa di Musazzi, attore, regista e va da sé straordinario cantore popolare delle gesta di quell'autentica saga a puntate che, per tre mesi all'anno, obbligava il teatro che ne eternava i fasti a cancellare qualsiasi altra programmazione. Vi ricorderete, spero, che a quell'epoca purtroppo se n'era già andata anche l'eterea Mabilia che, più soffice e vaporosa di una Saint Honoré, sembrava indistruttibile quando, inviando leggiadri baci in platea, riceveva il commosso applauso della Wandissima che, in prima fila, aveva le lacrime agli occhi. Come non vi sarà sfuggito, mi auguro, che nel giro di pochi anni dall'immatura dipartita delle più dotate soubrette in travesti che abbiano calcato le scene lombarde, un'altra compagine si presentò a rinverdirne i fasti per la gioia dei vedovi d'arte orbati delle loro beniamine. Il gruppo, che fino a due anni or sono, si esibiva con successo conquistando al teatro popolare le nuove generazioni si chiamava «I nuovi legnanesi». Inedito al punto che, per differenziarsi dall'atavico cliché dei predecessori, aveva scovato un autore-regista di provata fama come Alvaro Testa che forniva copioni di suo pugno avvalendosi di un'eccezionale primadonna come la formosissima Rina di Rino Maraschi scortata dalla longilinea Eleonora di Lino Mario. Due vedette, il comico e la sua spalla, che senza rifarsi né a Teresa né a Mabilia, han creato due indimenticabili maschere degne di figurare, con tutti gli onori, nel museo ideale della cultura pop. Fin qui col passato prossimo. Perché, tornando al presente, oggi la situazione è mutata. Dato che un'altra compagnia, col consenso dell'erede di Musazzi, ha ora l'insindacabile diritto di fregiarsi del mitico marchio di fabbrica «I Legnanesi». Relegando la Rina, con Eleonora al seguito, non nella fumosa cantina dove languivano «Le due orfanelle» ma, udite udite, addirittura tra i nullafacenti. Poiché inibisce a quei bravissimi «Nuovi Legnanesi», cui va tutta la nostra simpatia anche perché non sfornano i vecchi copioni del geniale Musazzi come invece fa oggi Antonio Provasio, leader dell'agognata investitura, ma bensì testi nuovi di zecca che non mettono affatto in discussione l'eredità storica del passato, di prodursi data la concorrenza nelle stesse agognate «piazze» lombarde.
Ce lo confida amareggiato Rino Maraschi che, per colpa di questo infernale distinguo che ben meriterebbe il nome di nuova Battaglia di Dame, da due anni non riesce a trovare in Milano uno straccio di teatro per dar fiato e sangue alla sua creatura d'elezione: Rina, la maliarda dalla lingua sciolta che assale il pubblico con prodezze vocali degne di un funambolo dentro una stazza extra large che avrebbe fatto la felicità di un caricaturista come Novello per non dire di Vamba, l'autore dell'esilarante «Gian Burrasca».
Vuole spiegarci cos'è successo, signor Maraschi?
«È successo che, con la scusa di una sigla esclusiva che ci penalizza senza che ne abbiamo colpa (noi siamo I nuovi, riaffermo, e non un calco dei vecchi Legnanesi), si è fatta terra bruciata attorno alla nostra compagnia. Le pare giusto?»
Mi sembra inammissibile che un borgo di tradizione teatrale come la mitica Legnano di Musazzi non debba possedere due, tre, quattro gruppi di teatranti doc. E soprattutto che si penalizzi chi ha creato la Rina. A proposito, vuol dirmi come è nata questa signora dell'entroterra milanese di cui tanto sentiamo la mancanza?
«L'ispirazione mi venne dal Tango della ragna, una filastrocca che cantavo in uno spettacolo di Musazzi. Una sera, nella foga del ballo, persi un tacco della mia altissima calzatura e fui costretto a continuare fingendo che quell'exploit di nuovo genere fosse parte integrante del copione. Mi divertii talmente, in scena, a minimizzare quell'incidente sul lavoro che, tanti anni dopo, mi dissi: Perché non far nascere da un tacco perduto una creatura eccentrica e smodata come la Rina, con le labbra a cuore e l'incarnato color ravanello? Quell'episodio, vede, io lo metto sullo stesso piano di Eva, la madre del genere umano».
Eva...
«Ma per nulla! Come Adamo è nato dalla sua costola, la Rina che è più scaltra di una volpe è stata partorita da un tango».
Speriamo dunque che, assai presto, torni a ballare. Auguri, Rina!
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