Milano - Stanno già fotografando il cadavere, i turisti che si aggirano nei pressi di Times Square, a New York. Con gli obiettivi puntati verso il cielo, immortalano il grattacielo un tempo simbolo di solidità, così come quel logo, Lehman Brothers. Oggi il gigante di vetro e acciaio è ancora lì, con la scritta in bella evidenza.
Domani, o tra qualche giorno, non sarà più lo stesso. Perché la storia di Lehman è senza lieto fine: nella notte tra domenica e lunedì, la banca d’affari ha scritto il capitolo finale. Chapter eleven, estrema sintesi giuridica con cui negli Usa si classifica una bancarotta, un fallimento. Un crac. Anzi, il Crac con la maiuscola, il peggiore di sempre, al punto da far impallidire perfino il dissesto di Worldcom e i bilanci avvelenati di Enron.
Lehman è arrivata al capolinea schiacciata da debiti per 640 miliardi, senza più un centesimo nelle casse, con il valore di Borsa azzerato (meno 95% ieri) dopo un calvario durato mesi, durante i quali né le operazioni straordinarie sul capitale, né i tagli occupazionali sono bastati a cementare fondamenta fragilissime. Troppo alto il prezzo da pagare per il disinvolto uso di derivati e di tutto ciò che rimanda alla metastasi finanziaria dei mutui subprime. Dopo i quasi quattro miliardi di perdite che hanno macchiato il terzo trimestre, il conto è stato presentato a tutti: dal numero uno Dick Fuld, lehmaniano da 40 anni, ai 26mila dipendenti sparsi in tutto il mondo (140 circa in Italia), molti dei quali hanno già cominciato a sgomberare le scrivanie; dai soci forti come Axa ai piccoli risparmiatori, fino ai possessori dei 155 miliardi di obbligazioni non garantite.
Un disastro dalle proporzioni non ancora completamente definibili, a causa del possibile fall out su quel sistema finanziario globale di cui la banca era un importante tassello di connessione, che fino all’ultimo i mercati hanno sperato si potesse evitare. Ma il Cavaliere bianco non è arrivato. I tentativi d’emergenza imbastiti dal Tesoro Usa durante lo scorso weekend, in collaborazione con la Federal Reserve e la Sec (la Consob Usa), sono andati a vuoto. Si sono defilati gli inglesi di Barclays, mentre Bank of America - considerata dalle indiscrezioni in pole position nell’azione di salvataggio - ha preferito inghiottire un altro boccone (che si spera non indigesto), mettendo sul piatto 50 miliardi sotto forma di azioni per acquistare Merrill Lynch (valutata quindi il 70% in più degli attuali prezzi di Borsa) e prendendo le distanze dal naufragio di Lehman. «Non abbiamo mai pensato ad altri che a Merrill per una fusione», ha detto l’ad Kenneth Lewis.
Forse è vero, forse no. Di sicuro, la determinazione con cui il numero uno del Tesoro, Henry Paulson, ha negato aiuti finanziari ai possibili salvatori è stata decisiva nell’allontanarli. E, dunque, nel far fallire la banca. Un comportamento apparentemente anomalo se si considera l’interventismo dell’amministrazione Bush, scesa in campo a marzo per favorire, con un assegno da 30 miliardi, il traghettamento di Bear Stearns verso i lidi più sicuri di Jp Morgan; e poi, un paio di settimane fa, pronta a evitare il collasso delle due agenzie parastatali, Fannie Mae e Freddie Mac, sedute sulla polveriera di mutui per 5mila miliardi.
Paulson, questa volta, ha detto basta: per dare un messaggio forte, per cancellare l’idea un po’ troppo consolidata secondo la quale il soccorritore di ultima istanza sarebbero comunque
state le peraltro disastrate casse federali. Così, la fine ingloriosa di Lehman diventa lo spartiacque tra la strategia del soccorso di ieri e quella di domani, in cui chi sbaglia paga. Anche se i cocci non sono solo suoi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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