
Mi sono ritrovato una domenica pomeriggio dentro un cinema. Non è questa però la recensione di un film, avendo esaurito le mie cartucce idonee alla specialità circa sessant'anni fa. La mia prima collaborazione giornalistica, all'Eco di Bergamo, si era esercitata nel settore della settima arte (si chiama così, se ricordo giusto) a cui mi prestavo in assenza del titolare. Sono dunque riconoscente al cinema per avermi consentito di raggranellare qualche soldo, introducendomi nel mestiere, e l'ho finita lì. Da allora i miei ingressi in sala si sono rarefatti. L'ultima volta che mi sedetti tra le file di poltrone si poteva ancora fumare, un secolo fa o forse due.
La tiro un po' in lungo, e ho le mie ragioni a ritardare il vostro ingresso nell'esperienza che qui racconterò, perché c'entra il sentimento personale e temo banale dell'essere nonno, e la cosa desta il mio pudore, e la pressoché assoluta certezza di essere accolto da un "chissenefrega", o come si dice oggi "e sticazzi". Amen. Devo dirlo: non è male scoprirsi nonni. Mi contraddico, o forse divento vecchio, e con questo sentimentale. In passato - devo anche averlo riferito - pagavo la mia prima nipote con un biglietto da mille lire, ogni volta che evitava di addebitarmi questo titolo parentale.
Fatto sta che avevo appreso da alcuni titoli di giornale che Giulio Feltri, figlio di Mattia e di Annalena Benini, aveva esordito come attore al Festival del Cinema di Venezia, e a 16 anni aveva recitato come co-protagonista ne La valle dei sorrisi, film di genere horror, con la regia di Paolo Strippoli, affiancando Michele Riondino. Sono entrato non sapendo nulla né della trama né di quale tipo di personaggio rappresentasse.
La storia si svolge in un paese di montagna, Remis, dove tutti sono felici. La ragione è dovuta a un ragazzino che tutti credono un angelo, Matteo Corbis, cioè Giulio. Raccolto da neonato da una coppia di vecchi coniugi, unico superstite di un disastro ferroviario, ha un dono o una dannazione addosso. Quando viene abbracciato purifica chi lo stringe a sé da ogni pena, dolore, preoccupazione. La faccenda viene risaputa, e dunque la popolazione tutta intera, ogni settimana, ripete questo rito. Il problema è che Matteo toglie la sofferenza agli altri, caricandosela addosso. Sono vampiri tutti questi abitanti, scusate ma io ho i miei motivi per stare dalla parte del presunto angioletto.
Ho detto angioletto, ma il film ha aspetti terrificanti che vi risparmio. Giulio è un altro rispetto a quello che conosco. Ha una mestizia sul volto, negli occhi, una tragicità vibrante, comunicate attraverso mosse lievissime che emozionano chiunque in sala, ma il sottoscritto, e la nonna Enoe al mio fianco, cento volte di più. La ragione è che so bene che lui non è così. Ci dispiace si sia caricato di questo scafandro fino a fondersi con questa veste dolentissima. Come è possibile una simile trasmutazione? Ed ecco però, due volte, per due momenti del film, si libera di quella crosta sciagurata, e la luce appare scintillante nei suoi occhi e sulle labbra. Accade - in questa storia - grazie al professore di educazione fisica, Sergio Rossetti (Michele Riondino, bravissimo), il quale si è finalmente accorto dello sfruttamento cui è sottoposto mio nipote, pardon l'allievo Matteo, e prova a sgravarlo dal sortilegio. In quei due istanti ho rivisto Giulio, la verità di Giulio, lieve e profondo, che siede al desco accanto a me, di tanto in tanto, risalendo da Roma a Milano.
Credo sia questo il miracolo dell'arte drammatica, reso ancora più evidente nel cinema dal grande schermo. Per cui si assiste al balletto della vita quasi si celebrasse su un altare, dove appaiono maschere che parlano di ciascuno di noi o del nostro vicino, di quello che ci attraversa l'anima nella tragedia e nella quotidianità, e che somiglia un po' a quello che tutti abbiamo vissuti e nello stesso tempo è diverso per ciascuno. Gioia (rara), dolore, crudeltà, bene (raro), sperdutezza, compagnia, amicizia, amore (anche), solitudine e morte.
Le recensioni che poi ho letto parlano tutte bene del film. Io mi accontento di grondare soddisfazione per mio nipote, se vorrà ha un mestiere difficile davanti.
E mi viene in mente che
davvero non capisco chi ha paura di protrarre la stirpe umana generando altri piccoli e amabili stronzetti. Certe volte, come adesso che lo scrivo, credo ne sia valsa la pena. Ma è l'ultima volta che questa bestemmia mi scappa.