di Luca Pignataro *
Egregio Direttore,
leggo sul Giornale di venerdì 5 giugno, un articolo di Gianni Pennacchi sul convegno «Resistenza e Comunità europea» organizzato dalla Regione Lazio e dal governatore Piero Marrazzo, in cui tra gli invitati c’era «Zarko Besenghi comandante partigiano dell’esercito di liberazione iugoslavo». In realtà la storia di questo personaggio è un’altra.
Il 5 maggio 1945 tale Zarko Besedniak, capo della sezione criminale della Difesa Popolare di Opicina (organo dei partigiani comunisti iugoslavi che avevano occupato Trieste) diede ordine di trarre in arresto Vittorio Cima, Luciano Manzin e Mario Mauri accusati di aver rubato un maialetto. Su questo fatto c’è la Sentenza della Corte d’Assise di Trieste del gennaio 1948 che dice: «Nessuna prova esisteva... tutti i derubati hanno affermato di aver subito rapine ad opera di militi fascisti ma nessuno ha riconosciuto questi nei tre». Nelle cronache del tempo è messo in risalto che queste rapine non furono mai denunciate e che i rapinati non si ricordavano neanche quando sarebbero stati rapinati. I tre giovani furono imprigionati nella villa Boschian adibita a carcere e luogo di tortura. Qui, interrogati dal Besedniak, rimasero dieci giorni e, stando alle dichiarazioni di due testimoni, avrebbero finito con l’ammettere di aver partecipato al furto del maialetto assieme a soldati tedeschi. Besedniak diede ordine che i tre venissero condotti a Rupingrande (il villaggio luogo del furto) per essere sottoposti al giudizio della popolazione, giudizio che avrebbe dovuto essere immediatamente eseguito (e che a quel punto era scontato). A Rupingrande i tre giovani furono portati all’osteria «Da Giovanna» innalzata al rango di tribunale. La popolazione del borgo non accorse numerosa. Una quarantina di persone su più di trecento abitanti. Una ventina di persone nell’osteria, altre rimasero fuori. Nei verbali di interrogatorio che vennero letti nella stanza non c’era nessuna accusa precisa. La decisione di fucilare i tre venne presa da quelli che erano nella stanza. Furono condotti su una collina poco distante, ebbero l’ordine di spogliarsi nudi e quindi vennero uccisi con una pistolettata nella nuca. Indi furono gettati nella foiba vicina.
Nel 1948 a Trieste si tenne il processo contro i responsabili del delitto della foiba. La sentenza, emessa dal presidente della Corte d’Assise, Thermes, consigliere Roatti e giudici popolari Negri, Germani, Cosciani, Tonini, Corradini, osservava: «È il sentimento più vivo e più tenacemente radicato nell’anima popolare che esclude ogni possibilità di giustificazione dell’operato dei giudicabili. (...) Vittorio Cima, Mauro Mauri e Luciano Manzin sono stati condannati a morte senza che coloro i quali si sono arrogati il potere di giudicarli li abbiano interrogati, senza che nessuno abbia loro contestato un’accusa precisa (...). La legge penale... è stata potentemente violata dagli odierni imputati».
Il fatto ebbe vasta ripercussione e fu oggetto anche di un commento del grande filosofo del diritto Giuseppe Capograssi, il quale commentò come i responsabili dell’omicidio della foiba fossero della stessa genia degli uomini delle caverne, del tutto privi di umanità.
Il Besedniak venne condannato a 15 anni di reclusione, ma era fuggito nella zona B del costituendo Territorio Libero di Trieste, quella sotto occupazione iugoslava e così non scontò neanche un giorno di galera. Pare che gli iugoslavi lo facessero professore nel liceo di Capodistria, ma Zadko Besedniak non si trovò bene nel paradiso comunista di Tito e nei primi anni ’50 fuggì e riparò in Italia!
Chiese e ottenne la revisione del processo e fu prosciolto da ogni accusa. Contemporaneamente questo sloveno si fece cambiare il cognome in Besenghi e ridiventò italiano a tutti gli effetti.
Ecco la storia di questo cosiddetto «eroe» ospite del governatore Marrazzo (nel tondo). Ho avuto modo di occuparmene in un articolo pubblicato dalla rivista «Nova Historica» in cui riportavo il testo della sentenza del 1948 e del commento di Capograssi.
*docente di storia
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