Cultura e Spettacoli

LETTERA APERTA A CATTELAN

Caro Maurizio Cattelan (e cari milanesi), la storia è così. Nessuno sa davvero che cosa significhi la scultura con il «dito medio». Però tutti sanno che cosa significa la parola «provocazione», noiosa, noiosissima eco di quel che fu l’arte, ai tempi eroici di Marcel Duchamp e per molti decenni a seguire.
Oggi la vicenda milanese assume toni paradossali. Come può un’opera dissacratoria e provocatoria passare attraverso il consiglio comunale? Opere dissacratorie le fecero Caravaggio, Courbet, Manet. Senza consigli comunali e giunte. Davvero, caro Cattelan, pensi di poter scuotere i borghesi passando dalla giunta? E quindi, esteti e scrittori, chiamati alla bisogna, davvero dissertate sul «dito»?
È ovvio che dopo l’«ago» e il «filo» di Claes Oldenburg, in piazza Cadorna, a Milano nessuno agogna ad avere il «ditone» in piazza della Borsa. Sapete perché? Perché nessuno sa che cosa vuole dire.
Allora: secondo internet, è una roba da romani (antichi) o una roba da guerra dei cent'anni (ossia arcieri). Obiettivamente un po’ diversa da giunte e assessori. Semplicemente, io:
1) A Maurizio Cattelan dico di fare un dito di venticinque metri e non un ditino da consiglio comunale: spezza loro le reni e fatti arrestare. Da amica ti dico: la provocazione non può passare dalla giunta, né la provocazione può essere «politicamente» ridimensionata (il «ditino») per essere addomesticata, mitigata, silenziosa. Fallo di notte, veniamo noi da tutta Italia, pagalo tu, ma fallo enorme, fidati di noi che da ottant’anni lottiamo contro le banche e le borse, perché siamo poundiani, e le banche ci fanno schifo.
2) A politici dico di non pensare di potersi accordare. O voi o loro. Davvero pensate che un «piccolo dito» - magari che rimanga pochi giorni - riesca a mettervi tutti d’accordo, stile Udc? No.
La Storia, «ultima maestra», ci ha detto che rompere vuole dire rompere, e non mettersi d’accordo. Quando Domenico Rambelli pensò e fece il monumento a Francesco Baracca a Lugo, fece un’ala di marmo di trenta metri che ancora stupisce Lugo e Ravenna. Perché si vede da lontano. E non passò dalle giunte, ma da Benito Mussolini in persona, e lui, lui Rambelli, finì bastonato e povero, ma la sua ala ancora svetta, invitta per sempre e di marmo. Gustave Courbet se lo pagò da solo, il suo Padiglione, e vi espose la sua Allegoria. Era la sua vita, e faceva bene a pagarselo.
Allora, caro Cattelan, il dito devi farlo più grande, enorme e di marmo, perché siamo tutti d’accordo con te, la bellezza e l’arte qui non c’entrano: è esattamente come Courbet con la Comune di Parigi. È un problema di dimensioni? Ma dài.
Alla Biennale di Venezia del 1972, Gino de Dominicis espose un «mongoloide». È strano, e stupisce, ma tutti ancora non sanno che significato attribuire esattamente a quel gesto. Eppure, oggi il MAXXI di Roma dedica a De Dominicis una grande retrospettiva, piena di dubbi e di punti interrogativi. «Bella», dicono tutti, «Bella» (ma davvero «bello» è l’aggettivo più adatto a giudicare De Dominicis?). Sono passati quarant’anni da quel gesto: per tanto tempo, nella leggenda dell’arte, ci si è chiesti se De Dominicis fosse morto davvero... Alcuni se lo chiedono ancora.
Ma noi? Noi guardiamo i piedi sporchi del devoto della Madonna dei Pellegrini di Caravaggio a Sant’Agostino a Roma, e ancora non sappiamo che cosa voglia dire.
Caravaggio somiglia a Cattelan, tra sregolatezza e potere. Esibiscono sconcerti, l’uno col consenso delle giunte, che fiorettano giudizi gentili sapendo che tutto è già deciso, e l’altro, Caravaggio, primo grande «irregolare» italiano, sancito da Bernard Berenson e Roberto Longhi, nel lungo corso del secolo scorso, tra regola e potere. Forse i piedi sporchi erano quello che volevano dire i preti? Oppure erano il gesto di un sovversivo vero? Come Cattelan? Forse i veri sovversivi erano sempre d’accordo col potere?
Magari i veri sovversivi dipingono paesaggi e stanno zitti, come faceva Corot, che, senza tanti «gesti», insegnava al mondo che cosa sognare, e questa sarebbe la vera sovversione, perché, davvero, non sappiamo che cosa guardare, a parte Corot, a parte Guercino.

Che non sapeva di giunte, ma sapeva di cieli.

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