Luca Gallesi
Che cosa hanno in comune le botte e la cultura? Poco, anzi, moltissimo, secondo il parere due esperti come Antonio Franchini, scrittore, direttore editoriale della Mondadori - ma soprattutto appassionato praticante di sport da combattimento - e Cesare Barioli, padre nobile del Judo italiano - ma anche scrittore, giornalista e poeta.
Per Antonio Franchini, la riflessione sulla violenza parte dalla sua adolescenza: «Come molti altri appassionati che hanno fatto della lotta una ragione di vita, ero un ragazzino frustrato e gracile, che si sentiva a disagio e inadeguato nell'universo maschile. Così, mi sono appassionato prima ai combattimenti in celluloide, quelli dei primi film di Bruce Lee e poi a quelli veri e propri, di sudore e botte: ero ossessionato dall'attività fisica e avrei voluto diventare invincibile». «Crescendo - riprende - mi sono accorto che in tutte le attività fisiche c'è una disciplina profonda legata al nostro corpo: il corpo esprime una sua cultura, che fa parte della cultura tout court. Chi non ce l'ha manca di qualcosa: oggi, finalmente, anche molti dei miei amici intellettuali che fino a pochi anni fa non avrebbero neppure preso in considerazione una simile idea, riconoscono che il corpo ha una sua sapienza e che le discipline del corpo esprimono sedimenti di cultura millenari; un uomo, o peggio, un intellettuale, che sia totalmente privo di questa dimensione è inevitabilmente e gravemente menomato. Solo chi ha praticato per qualche anno una disciplina da combattimento sa che tesoro di esperienza, di cultura e di lavoro ci sia dietro una tecnica di Karate, o una proiezione di Judo o di una serie di movimenti dell'Aikido: sono costruzioni intellettuali tanto quanto lo è la Fenomenologia dello spirito di Hegel, con la differenza che, in linea di principio, possono essere accessibili a tutti... ».
Già, perché il mondo dei lottatori, quello descritto nell'ultimo libro del Franchini narratore, «Gladiatori» (Mondadori), è una struggente galleria di personaggi sicuramente poco istruiti ma non per questo meno colti. Avranno forse letto pochi libri, ma hanno dato alla loro vita un senso tanto semplice quanto efficace: si nasce per morire, e il dominio sul dolore è la nostra vittoria sul mucchio di delusioni e compromessi a cui si riduce la nostra esistenza. I «gladiatori» sono spesso persone notevoli e leali, anche se non sempre raccomandabili. La loro cultura è fondata sul rispetto: hanno una visione limpida dell'amicizia, dei rapporti umani. A loro modo, sono artisti, e «non è un caso che molti intellettuali e scrittori si siano avvicinati a questo mondo - prosegue Franchini -. Possiamo citare Hemingway, Mc Inerney, Mishima, Jack London come pochi esempi dei molti scrittori che hanno cercato di coniugare arte e vita, scrittura e violenza per giungere alla bellezza attraverso il sacrificio e la disciplina».
Per Cesare Barioli, forse, il percorso è stato affrontato in senso inverso; dopo una vita spesa a difendere e diffondere il Judo tradizionale, ha infatti fondato l'Aise (Associazione Italiana Sport Educazione), che si prefigge lo scopo di riportare il Judo alla sua dimensione primaria, quella educativa: «Il judo non è solo un insieme di tecniche di combattimento, ma è una disciplina confuciana che riguarda il miglior impiego dell'energia. La mia associazione, accanto ai tornei studenteschi, fa dell'attività culturale che riscuote molto successo, affrontando e approfondendo i temi più disparati, dalla relatività al Mahabaratha».
Ma, allora, che cos'è la cultura? «La massima sintesi dell'esperienza: così, come in un certo tipo di poesia, la cultura è la voce della verità, nel combattimento si sposa con l'esplorazione dei vari stati d'animo del guerriero, che ha davvero molto in comune con l'artista, e non solo per la sua irascibilità o bizzarria, ma perché è anche lui preda dell'ispirazione, di quelle idee che viaggiano nel mondo e che gli uomini più sensibili, appunto gli artisti e i guerrieri, sanno cogliere dall'aria».
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