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Tra letteratura e realtà

Nel 37 avanti Cristo l’ammiraglio romano Agrippa tagliò in Campania un canale tra il lago Lucrino e l’Averno, facendone una base per la flotta di galee da guerra stanziata a Capo Miseno. Le cronache del tempo ricordano che un dio paesano, omonimo del lago, non la prese bene. La sua statua sudò. Quel Portus Jiulius, così chiamato in onore di Cesare, gli pareva la profanazione di un luogo sacro e arcano. Chissà quanto trasuderebbe di rabbia e indignazione adesso, il vecchio nume Averno, a sentir dire che il suo specchio d’acqua è diventato un circolo esclusivo di malavitosi. Lo stato lo sequestra, e fa bene, ma la reputazione ormai è a picco. Un tempo, qui si davano convegno eroi e profetesse portentose. Il primo era stato Dèdalo, l’architetto di Minosse, il costruttore del labirinto di Creta. Era evaso dal palazzo maledetto con le sue leggendarie ali, e si era paracadutato proprio lì, in riva all’Averno. Vi aveva costruito un tempio al suo dio personale, Apollo. Aveva lo scalpello facile, Dèdalo, e aveva istoriato sui frontoni del santuario tutta la sua storia. Gli mancava l’ultima puntata, la perdita del figlio Icaro, precipitato in mare con le ali di cera disfatte dal calore solare. Troppo strazio: la mano dell’artista non ce l’aveva fatta a sbozzare il dramma. Poi, ecco Enea, carico di missioni fatali: doveva posare la prima pietra della Roma augustea. Prima bisognava calarsi nelle viscere dell’aldilà, per interrogare le anime. E quale ingresso era più comodo del lago Averno? Era a due passi dall’«antica madre» dei vaticini, la Saturnia Tellus, la terra dove il dio del grano e delle semine, Saturno, si era nascosto, aveva «latitato», dandovi il nome: Lazio.
In pieni Campi Flegrei, cioè «ardenti», per le fumarole vulcaniche, quello specchio scuro e avvolto dai vapori era il vestibolo ideale per le terre dei morti. Nemmeno gli uccelli lo sorvolavano. E se per sbaglio lo facevano, finivano in acqua stecchiti dalle esalazioni. Per questo i Greci della vicina Cuma lo chiamavano Aornos, «privo di uccelli». In cambio, però, vi tenevano udienza le Sibille, in un antro di pietra che echeggiava dei loro responsi, tra spire sulfuree e giochi di luce di potente effetto mistico. La Cumana pilotò Enea verso il ramo d’oro, che brillava nel bosco d’Averno e che segnava il sentiero verso il mondo occulto.
Sappiamo tutto dal VI canto dell’Eneide di Virgilio, dettagliato come un navigatore satellitare. Non era l’unico ingresso alla landa dei defunti. Teseo ed Edipo ne trovarono uno anche ad Atene, tre gradini di bronzo nel quartiere di Colono, una scorciatoia verso per l’Acheronte, il fiume dei trapassati cui non restano che le lacrime. Ulisse, che aveva un appuntamento con Tiresia, un profeta passato nel mondo dei più, si era spinto con la nave su al nebbioso nord, tra cascate perenni e foreste di conifere che fantasiosi critici moderni identificano come quelle che orlano i grandi laghi del San Lorenzo, in Canada. Dante Alighieri avrebbe dovuto scarpinare fino a Gerusalemme, per imboccare una strada più tortuosa, nella selva oscura più famosa del mondo. L’Averno, però, era anche un lago. E questo ne faceva un luogo simbolico. I laghi erano gli occhi della terra. Da sotto, gli dei del profondo lanciavano attraverso il liquido corridoio i loro sguardi interessati sui paesi dei viventi.
Per i Celti, il lago era il nodo tra la superficie e l’abisso. Perciò vi gettavano amuleti d’oro, primizie e parte dei bottini guerrieri, per ingraziarsi le potenze.

I precolombiani inviavano le vittime sacrificali agli dei dell’oltremondo attraverso i cenote, i loro pozzi carsici. Dal lago affiorò la Dama che consegnò ad Artù l’acciaio di Excalibur, e che dopo la battaglia di Camlann trasferì il re agonizzante ad Avalon. Altri tempi. Oggi l’Averno è una palude di camorra e carte bollate.

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