Cultura e Spettacoli

La letteratura sta affogando nel "sociale"

Secondo i critici militanti, non c’è differenza fra un’opera d’arte e una puntata di Report o un film di Michael Moore. E' la Scuola del Risentimento e vorrebbe uccidere la creatività

La letteratura sta affogando nel "sociale"

Insomma, signore e signori, come mai da noi è impossibile fare qualsiasi distinzione artistica in letteratura? Come mai non c’è più alto né basso ma solo il numero delle copie vendute? Come mai non ci sono più riferimenti culturali imprescindibili, e questo solo in letteratura, perché perfino in gastronomia il Mc Donald’s non avrebbe mezza stella sul Gambero Rosso? Perché, se un capocultura di un noto settimanale scrive che Musil e Proust non hanno più niente da dirci e Faletti è il più grande scrittore italiano non parte neppure una pernacchietta, una scorreggina? «Senza aiuti critici da nessuna parte, è naturale che invece in casa nostra la situazione si sia fatta gradatamente più spiacevole, mentre i vecchi praticoni inferociti agonizzano sempre meno rispettati e muoiono addirittura tra i dileggi» scriveva Alberto Arbasino già nel 1964 a proposito della situazione culturale italiana, quando «era già possibile toccare con mano la mediocrità letteraria e umana del buttar via ogni tipo di dignità pur di far rendere la cultura in soldi».

Ora che i vecchi praticoni sono morti e sepoltissimi, ora che si è rimasti soli a denunciare la mediocrità letteraria e gli Strega e i Campielli e gli Scarpa e gli Scurati e i D’Orrichi, ora che a tentare una benché minima distinzione estetica, artistica, si passa per «puristi», come dichiarano orgogliosi i De Cataldi che butterebbero alle ortiche la Recherche (e paradossalmente questi «puristi» diventano i rivoluzionari nella dittatura della cultura di massa), tanto vale espatriare con la mente e cercare conforto oltreoceano, per esempio in un caro vecchio saggio rompiballe come Harold Bloom.
Il più grande critico vivente, politicamente scorrettissimo, ieri intervistato dal Giornale, a differenza dei critici nostrani, capaci solo di convalidare le classifiche di vendita e il mainstream del vendibile e premiabile, o di scrivere inutili libercoli su se stessi, ha lasciato opere importanti e combatte per la letteratura, non contro la letteratura. Non si capacita, infatti, di come abbiano potuto dare il Nobel a Dario Fo. Nei suoi libri scopriamo che, forse, tutto il mondo è paese, e troviamo le risposte a tante piccinerie italiane, per difendersi dai saggisti che si sostituiscono agli scrittori, per trovare antidoti ai refrain funebri sulla morte dell’autore, sul romanzo morto, sui classici resi morti perché canonizzati per essere mortificati, museificati, resi inerti, sterilizzati o comprati a sporte per fare una bella fila di Meridiani Mondadori da dodici euro l’uno, per averli senza leggerli e, soprattutto, senza tenerne conto.

Invece per Bloom il «canone occidentale» è qualcosa di vivissimo, e implica un’idea di «eccellenza» letteraria che qui (ma anche lì) si cerca di cancellare. La tendenza, ormai decennale, è una «fuga dall’estetico». La letteratura è un raccontare storie, possibilmente edificanti. È la grande Scuola del Risentimento, così la chiama Bloom, che combatte ogni idea di gerarchia artistica, e include varie tipologie di risentiti, tutti complici nel rendere tutto indistinguibile da tutto. Ci sono per esempio i marxisti, postmarxisti, seguaci di Michel Foucault, come per esempio, da noi, Carla Benedetti e l’andazzo «antigerarchico» del gruppo della rivista Il Primo Amore, dove non si può parlare di alto e basso, arte e non arte, letteratura e non letteratura, genere e non genere, perché si viola il politicamente corretto e inoltre si chiamerebbero in causa, secondo loro, categorie «borghesi» (come se l’arte fosse democratica, infatti vogliono abolire l’arte).

Ma, si sa, la Scuola del Risentimento sta con il popolo. Tempo fa chiesi alla Benedetti: «Allora di che cazzo bisogna parlare?». E lei mi rispose: «Non so, istituire categorie nuove, per esempio... mmm... la forza» e pensai che doveva essere appena uscita da Guerre Stellari, e come se la forza non fosse altrettanto gerarchica e anche intollerabile, per una critica femminista come lei. Lei, Carla Obi-Wan Kenobi, seguace di Foucault e Pasolini, detesta le gerarchie, ma giustamente Bloom osserva che «se non c’è canone, allora John Webster, che sempre scrisse all’ombra di Shakespeare, potrebbe benissimo essere letto al posto di Shakespeare, sostituzione che avrebbe sbalordito Webster stesso». Forse per «forza» si intende l’«energia sociale», e infatti i tanti esaltatori dei libri neoimpegnati (d’immigrazione, di precariato, di mafia e denunce sociali di vario genere) sono anticanonici, non gli interessa l’opera d’arte e la sua grandezza, bensì il suo aspetto sociale, la vecchia minestrina riscaldata dell’«impegno». Se leggete quello che dicono gli apologeti di Gomorra di Roberto Saviano faticate a distinguere la differenza tra un’opera d’arte e una puntata di Report o un film di Michael Moore, semplicemente perché, per i risentiti, non c’è, non deve esserci. Non esiste il genio, né l’individuo, esiste «la società». Dovrebbe essere pacifico: se sei il Mahatma Gandhi o il sindaco di Napoli va bene, se sei uno scrittore è male.

«Un critico può avere responsabilità politiche, ma il suo primo obbligo è di riproporre l’antico, triplice e assai tetro interrogativo dell’agonista: più che non, meno che non, uguale a». Inoltre, osserva Bloom, il canone, al contrario del contesto sociale, è perfino quantificabile, «il che equivale a dire che William Shakespeare scrisse trentotto lavori teatrali, ventiquattro dei quali sono capolavori, laddove l’energia sociale non ha mai scritto una sola scena». I critici dovrebbero occuparsi della mortalità o dell’immortalità delle opere letterarie, invece o sono zerbini dell’industria editoriale e delle classifiche di vendita, oppure (nuova tendenza italiana) tendono a sostituirsi agli scrittori. Trite e tristi discussioni che ho avuto con Berardinelli e il suo seguace La Porta (e con evocati annessi e connessi come Onofri, Manica, Cortellessa, e chi più ne ha più ne uccida) dove si citano l’uno con l’altro e leggono le opere attraverso i critici amici o da loro eletti a maestri, ritenendoli più importanti delle opere stesse.

È un’altra tipologia della Scuola del Risentimento, quella dell’invidia, per dirla esattamente con Bloom «l’invidia creativa». La stessa che aveva Tolstoj nei confronti di Shakespeare, solo che almeno lui, nell’idiozia critica, era Tolstoj, questi sono senza arte né parte, benché con tanta ideologia di condimento, e lì c’è un bel gruppetto di critici invasati d’impegno, basta leggere la produzione critico-meridionalista di Goffredo Fofi o quello che scrive sul Corriere della Sera l’altro critico Luperini di Saviano, contro chiunque lo attacchi in nome dell’arte, subito definito dal critico marxista «un berlusconiano», e confondendo l’eccellenza artistica con la morale. È solo perché un minimo di pudore resiste che non accusano Dostoevskij di antisemitismo e di schiavismo (dovrebbero, come hanno fatto con Céline), mentre oggi si fa a gara affinché ciascuno sia buono e si preoccupi della società. E non ho mai capito perché questi autori, così preoccupati dell’utilità a scapito dell’arte, non facciano gli assistenti sociali, i magistrati, i sindacalisti, gli agitprop, i politici. Lo fanno solo Veltroni e Franceschini, dei quali tuttavia non ho mai capito perché scrivano, sebbene la risposta sia proprio il tema centrale della Scuola del Risentimento e dei mediocristi letterari. Scrivono perché credono che la letteratura non debba essere artisticamente eccellente ma moralmente buona, vendibile e buona. Leopardi sarebbe stato tranchant: «Costante giudizio della moltitudine è che chiunque possa eleggere, elegga di esser buono; gli sciocchi sieno buoni, poiché altro non possono». Valéry avrebbe obiettato: «Ho in sospetto la facilità dei mezzi ricavati dai sentimenti. Fornire i propri sentimenti non spetta all’autore, spetta all’altro». Proust si chiedeva: «Perché un operaio non può leggere Baudelaire?». Bloom non è stato da meno, e nel Canone Occidentale osservò appunto che «l’ingiustizia suprema dell’ingiustizia storica è che essa non dota necessariamente le proprie vittime di alcunché che non sia un sentimento della loro vittimizzazione.

Qualsiasi cosa sia il Canone Occidentale, esso non è un programma di redenzione sociale».

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