Il 28 giugno del 1945 Georges Bernanos (1888-1948) rientrò in Francia dall'«esilio» brasiliano che otto anni prima era stato il suo per scelta. Nel 1938, precedendo l'effimero patto di Monaco che avrebbe dovuto soddisfare Hitler e rassicurare le democrazie liberali, Francia compresa, se n'era andato via: trovava l'aria del suo Paese irrespirabile per chi, come lui, voleva essere libero di esprimersi. Negli anni Trenta, La grande paura dei benpensanti lo aveva reso inviso alla sinistra marxista come al centro progressista; I grandi cimiteri sotto la luna aveva sortito lo stesso effetto con la destra, estrema o moderata che fosse.
In quell'arco di tempo Bernanos era stato in Sud America l'anima della Resistenza francese, e lo era stato da subito, come per De Gaulle dal Regno Unito. Sui grandi giornali brasiliani aveva scritto contro Pétain, il petainismo e la Francia di Vichy, aveva incitato a ritrovare l'orgoglio nazionale, a non perdere ogni speranza. Missione compiuta, avrebbe ora potuto dire ed era un po' questo il senso degli inviti pressanti e personali che lo stesso De Gaulle gli aveva indirizzato da Parigi: avevano in comune «una certa idea della Francia» ed era in patria che quell'idea andava adesso sottoposta a verifica.
Il rientro fu però per Bernanos devastante. Negli anni dell'«esilio» il nemico, ovvero il male, era stato per lui chiaro, visibile a occhio nudo, ma adesso la Liberazione appena conquistata gli apparve subito una Liberazione fallita. Dall'estero non aveva potuto rendersi bene conto del peso dell'occupazione e/o del collaborazionismo: denunce, tradimenti, arricchimenti, mercato nero... Ne vedeva però, come in controluce, lo specchio rappresentato dall'epurazione, il regolamento di conti, le nuove liste di proscrizione. C'era nell'aria un sentimento di vergogna e di vigliaccheria misto a un insopportabile orgoglio della vittoria che rendeva anche questa volta l'aria del Paese irrespirabile. Soprattutto, Bernanos aveva visto nella guerra anche una sorta di crociata contro il mondo moderno, il suo istinto di dominio. Non c'era solo il totalitarismo politico da sconfiggere, c'era anche da liberare l'uomo dalla dittatura dell'economia, della tecnica, dello sfruttamento nel nome della produzione. Era l'anima, lo spirito dell'essere umano che andavano salvaguardati, erano loro a dare un senso alla parola civiltà. E invece...
Ora il volume No! (De Piante editore, pagg. 160, euro 22; traduzione e cura di Marco Settimini) raccoglie alcuni dei cosiddetti ecrits de combat, «scritti di lotta» è la traduzione scelta, ma forse quella più letterale di «scritti di combattimento» rende meglio l'idea, proprio perché Bernanos non era un lottatore qualunque, ma, appunto, un combattente, del genere intravisto in un suo saggio da Roger Nimier, ovvero, anche fisicamente, una via di mezzo fra un grognard di Napoleone, la vecchia guardia che brontolava sempre, ma rispondeva «merde» alle proposte di arrendersi e un Grande di Spagna... Un combattente e, suo malgrado, un profeta: «Un profeta non è tale se non dopo morto. Fino ad allora, è un uomo infrequentabile. Io non sono un profeta, ma mi accade di vedere ciò che altri vedono come me, ma si rifiutano di ammetterlo. Il mondo moderno rigurgita di uomini d'affari e di poliziotti, ma ha estremo bisogno di voci liberatrici. Una voce libera, per quanto possa essere cupa, è sempre liberatrice. Le voci liberatrici non sono quelle rassicuranti, rilassanti. Non si accontentano di invitare ad aspettare l'avvenire come si aspetta il treno. L'avvenire è qualcosa che si supera. Non si subisce l'avvenire. Lo si fa».
No! è dunque un'antologia di testi (con tre inediti per l'Italia) che a volte sono discorsi, interventi pubblici, conferenze in cui è la moderna società di massa e la tirannia dell'economia a essere sotto accusa: sono loro a preparare il suicidio dei popoli, la loro dannazione nel nome di un nichilismo disperato che falsa ogni equilibrio sociale e dà la stura a passioni collettive omicide, proprio perché poggiano sul nulla. È la modernità novecentesca ad aver allargato il solco fra ciò che era stato e il presente che veniva proposto. «Esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c'è invece un popolo di sinistra e un popolo di destra, c'è un popolo solo. Tutti gli sforzi che potreste fare per imporgli dal di fuori una classificazione elaborata dai dottrinari politici non riuscirebbero a creare nelle masse che correnti e controcorrenti, quelle di cui approfitterebbero gli avventurieri». E la colpa della società moderna è proprio l'aver «lasciato distruggere lentamente, in fondo alla propria cantina, una meravigliosa creatura della natura e della storia».
Non era realista Bernanos, ma a vedere che cosa ha portato il realismo politico, del Novecento e del post-Novecento, il disprezzo che i «machiavellici» nutrono verso gli idealisti, e che si tramuta in cinismo criminale, non è una colpa così grave... Come scriverà in La liberté, pour quoi faire?: «Prima di osar parlare di giustizia sociale, cominciate con il rifare una società, imbecilli! Avete appena eliminato sotto le bombe una civiltà di cui avevate già nelle coscienze distrutto il principio, e per voi giustizia sociale non è che un pretesto per liquidare ciò che di questo mondo resta e saccheggiarlo fin negli ossari».
La dittatura dell'economia, dicevamo, è un altro tema centrale di questi scritti, perché significa la negazione di ogni idea sovra-naturale e di ogni possibilità di vera giustizia, il trionfo del forte sul debole, tanto più se associata alla potenza della Tecnica che asservisce l'uomo invece di liberarlo. Privato di ogni corpo intermedio, trasformato in merce, è il totalitarismo quello che lo attende. «La società moderna non ha come scopo il mantenimento o la conservazione di beni ritenuti superiori all'individuo, così indispensabili alla specie, ma il semplice godimento del presente, per affrettare l'avvento del futuro, perché l'avvenire prevale sempre sul passato, e la perfezione sta al termine delle cose...
In realtà, la società moderna non ha alcun piano, nessuno scopo determinato all'infuori di quello di durare il più a lungo possibile grazie al metodo di cui si è servito sino a oggi, quello di un disgustoso empirismo».Era un profeta suo malgrado e un visionario, Bernanos. Ma sapeva guardare lontano e ci vedeva benissimo.