Per tutti gli scrittori esiste un anno spartiacque. Per Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), di Polizzi Generosa, Palermo, uno dei tanti siciliani che trovarono un’altra vita in America, fu il 1931. Romanziere (l’apprezzatissimo Rubè che racconta la crisi di un intellettuale borghese e di un’intera generazione), grande giornalista (redattore e poi corrispondente da Berlino per Il Mattino di Napoli, poi alla Stampa, quindi commentatore di politica estera per il Corriere della sera di Luigi Albertini e anche firma della Terza pagina per lo stesso quotidiano), apprezzato germanista, critico letterario versatile e disinvolto (con intuizioni e scritti importanti su Tozzi, D’Annunzio, i crepuscolari, Moravia...), poeta, drammaturgo e brillante professore di Estetica (cattedra appositamente creata per lui nel 1926 all’Università degli Studi di Milano), Borgese quell’anno ebbe un’offerta dall’Università della California per recarsi negli Stati Uniti e tenere un ciclo di lezioni come Visiting Professor.
Accettò, varcò l’Atlantico e alla fine tornò in Italia solo a guerra conclusa. Quello stesso anno maturò l’idea di rompere definitivamente con Mussolini e pubblicò – rielaborando un suo discorso tenuto in una conferenza a Zurigo nel 1929 e poi ripetuto in alcune altre città e quindi apparso sulla rivista “Nuova Antologia” – il saggio “Il senso della letteratura italiana”, uscito dall’editore Treves di Milano (e ora ripubblicato da Aragno). Un libro in cui si ritrova tutto il suo credo: letterario, civile e umano. Lui lo chiama uno “schema”, un abbozzo; noi oggi diremmo un pamphlet. Serioso ma così appassionato, così spiazzante, così elogiativo della spiritualità della cultura italiana, da diventare polemico.
E infatti Giuseppe Antonio Borgese – intellettuale irregolare e pensatore complesso: con Benedetto Croce ruppe presto, Antonio Gramsci non apprezzò mai la sua opera – critico polemico lo fu, eccome.
Disomogeneo rispetto ai moduli e alle mode che dominavano in quel momento la cultura italiana, caratterialmente combattivo e inquieto, convinto «della necessità di imporre ai rapporti politico-sociali e a quelli fra le nazioni una vera e moderna etica cristiana» (parole di Renzo De Felice), un’oratoria seducente e un’inclinazione esteticamente conservatrice, tutto sommato ricordato più in vita durante il fascismo che in morte dal «trionfante antifascismo che dall’eterno fascismo italiano sembrò ricevere certe consegne» (a parlare è il suo conterraneo e grandissimo ammiratore Leonardo Sciascia) e quindi tenuto in ombra nel secondo Novecento («Si direbbe che un vento ingiusto lo abbia soffiato via dalla nostra letteratura», scrisse di lui il suo allievo Guido Piovene), Giuseppe Antonio Borgese nel suo breve, sintetico, schematico «volumetto» sulla nostra letteratura (nato, particolare di non poca importanza, per un uditorio straniero) va in cerca, come Astolfo del senno di Orlando (e Borgese amava molto l’Ariosto), del senso perduto e nascosto della tradizione poetica italiana. Da Dante ai suoi giorni.
Un’impresa folle, epica, audacissima. E un’opera personalissima, sintetica e icastica che, per tutt’altro verso, ci fa venire in mente la più antiaccademica delle storie letterarie, ossia la “Storia tascabile della letteratura italiana”di Giuseppe Prezzolini (1976).
E così Giuseppe Antonio Borgese, in neanche cinquanta paginette – spesso ignorate o, semmai, lette più in virtù dei limiti che degli indubbi meriti – spreme da sei secoli di autori e di opere l’essenza, il carattere principale, il temperamento, lo spirito, vogliamo esagerare: la natura stessa dell’arte poetica italiana, che per Borgese fa il paio con le arti figurative, pittura e scultura. E siamo arrivati al punto. Nella visione di Borgese la nostra letteratura è caratterizzata da maestà, magnificenza, grandezza; tende all’ambizione e alla solennità; è votata all’espressione dell’assoluto. E il suo senso, ovvero ciò che essa significa e ciò a cui tende, è il sublime. Distinguendo due modi di cogliere il divino, l’uno che consiste nel concepirlo come un fieri, un divenire, l’altro invece come un’essenza immutabile, Borgese è convinto che il genio italiano rientri nella seconda categoria. Da una parte quindi l’ideale del sublime e dello spirituale (il paradigma religioso di Dante e Manzoni), dall’altra quello «materialista» e «profano» (il paradigma «ateo» di Boccaccio, ad esempio). La linea è: Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni...
Da una parte il cristianesimo nella sua essenzialità, un’esigenza del «ben costruito» (se la letteratura italiana fosse una città, sarebbe di pietra e marmo bianco), del perfetto, del maestoso, del mistico e dell’aspirazione al divino. E ancora: la predilezione per le forme sovrane e sintetiche, «le linee rette», la suprema armonia. Lo spirito della letteratura italiana è trascendente e sacro. E le due figure-guida – dell’arte come della letteratura – il Giudice e la Vergine. Il Cristo del Giudizio universale di Michelangelo e la Madonna della Divina commedia o la donna trasfigurata di Petrarca, oppure Angelica, o Lucia... L’arte italiana è insieme dantesca e michelangiolesca.
Dall’altra parte, invece, per opposizione, la razionalità, il realismo, lo scetticismo, l’ateismo, il senso del grandioso (che è diverso dal senso del grande), il profano, il cedimento alla decadenza, la sensualità, il boccaccesco, il Barocco, la «tronfiezza», l’effimero, le maniere, la frammentarietà, i vezzi delle mode (il critico Borgese stroncò frammentisti, calligrafi, rondisti, autori di prose d’arte e formalismi vari), l’ornamento, lo sfarzo (che è la negazione del sublime), il capriccio, le curve «mondane», le «barbare superfluità». La natura che non si eleva al soprannaturale, l’umano che non ambisce al sovrumano.
Di fatto Borgese, con tutte le semplificazioni del caso, identifica l’essenza della letteratura italiana con il canone classico, e rilancia una concezione «identitaria» e nazionale della creazione letteraria. Solo pochissimo tempo prima, presentando i principi guida che avrebbero ispirato il suo corso di Estetica per l’anno accademico 1929-30, Borgese aveva affermato: «Come italiani, noi possiamo ripetere: filokaloûmen. Per noi, l’arte è una vocazione e un’esperienza forse ancora più vasta e più profonda di quella che ebbe il mondo greco. Noi, che siamo il primo popolo artistico ed estetico del mondo non abbiamo dunque il diritto di rinunciare alla nostra missione; e per noi l’insistere sul problema dell’arte, il cercare di comprendere che cosa essa sia e dove conduca, il valorizzare questa ricerca anche solo in quanto ricerca, è compiere un dovere».
Per concludere: «La direzione è questa: trovare una giustificazione dell’arte che sia pienamente in accordo con la nostra coscienza e fede di artisti e di critici, scoprire quella santità dell’arte che ci è proposta dal Fedro di Platone».Che parole strane! Ascoltate oggi, poi... Un’arte «nazionale», «identitaria» e «santa».
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