
Dopo il successo del suo primo romanzo, Beba Slijepcevic torna in libreria con La lunga strada dei miracoli (Piemme), una storia intensa e commovente ambientata lungo il Cammino di Santiago. Un road novel dal cuore pulsante, che mescola ironia, dolore e redenzione, seguendo tre personaggi agli antipodi uniti dal bisogno — spesso inconsapevole — di ricominciare. Con alle spalle una carriera da sceneggiatrice per cinema, fiction e tv, Beba porta in questo romanzo tutta la sua capacità di costruire personaggi vivi, reali, umani. Abbiamo parlato con lei di pellegrinaggi, trasformazioni interiori, e del potere che ha ogni passo nel riportarci a casa, dentro e fuori di noi.
Come è nata l’idea di scrivere La lunga strada dei miracoli? C’è stato un episodio specifico che ha acceso la scintilla?
"Sì, c’è stato. Nel 2014, durante il mio primo Cammino di Santiago, attraversavamo le meseta: un altipiano dove per dei giorni vedi solo il cielo, i campi di cereali e qualche paesino. Una sera eravamo finiti in un posto davvero strano, sette case, un bar malmesso e un negozio che poi era una stanza 3x3. Uno della mia compagnia, Edoardo, disse: “Non ti sembra di essere in un film di Tarantino?” Lì mi si era accesa la scintilla che però ha dovuto pazientare un po’".
Sam, Pilar e Tonino sono personaggi molto diversi, ma uniti dalla necessità di un riscatto. Come ha costruito il loro equilibrio narrativo?
"Sono tre esistenze alla deriva, nella lotta tutt’altro che leggera per la sopravvivenza. Ne ho delineato le evoluzioni cercando un equilibrio tra le loro difficoltà e risorse, riflettendo sulle loro differenze, i punti in comune e su ciò che possono darsi reciprocamente. Intorno a loro ho inserito personaggi con storie più leggere: un imprenditore che cammina per la sua squadra, un ragazzo sudcoreano nel suo primo viaggio intercontinentale, e così via. E a quel punto mi sono lasciata trasportare".
Il romanzo riesce a toccare con leggerezza temi complessi come la marginalità, la fuga e la redenzione. Come ci è riuscita.
"Ho nelle corde sia il dramma che l’humour, quindi non ho avuto paura né delle risate né di scavare nel profondo delle ferite. In qualche modo l’uno mi ha permesso di utilizzare l’altro, come la gamba destra ti permette di fare un passo con la sinistra, e viceversa. Alcuni temi li sento e li scelgo: la dignità e la forza della piccola gente, a volte alla deriva, l’amicizia, la solidarietà, il mutuo aiuto. Credo siano questi i fili che possono raddrizzare anche le vite più storte".
Il Cammino di Santiago è al centro del romanzo. Cosa rappresenta per lei questo pellegrinaggio?
"Per me il Cammino, che ho fatto per il puro piacere dell’andare, è un po’ una metafora della vita: si parte, si sa che finirà, non sai cosa ti aspetta, intorno a te camminano altri, con le stesse tue esigenze e difficoltà. Ma lì, a differenza della vita cosiddetta normale, non ci si chiude dietro muri protettivi: non ci sono. E allora ci si apre all’altro. Si chiede, si dà. Si condivide un po’ tutto. E intanto accanto a te sfila il mondo. Nei giorni buoni — e per me lo sono stati quasi tutti — ti senti in sintonia con il cosmo intero. Tutto ciò non esclude che qualcuno possa rubarti il cellulare — siamo nella realtà, non nelle favole. Detto ciò, per me il Cammino resta come potrebbe essere la vita se facessimo cadere un po’ di muri".
Lei ha camminato lungo molti percorsi in Europa. In che modo la sua esperienza personale ha influenzato la scrittura di questo romanzo?
"La camminatrice che alloggia in me ha dato sapore al romanzo. È presente nei dettagli, nelle sensazioni, più che nella trama. C’è nell’odore delle stalle e dell’erba secca, nel piacere di una birra fresca o di un’ombra che ristora, nella bellezza di un sentiero ma anche in quella un po’ sgangherata di una periferia. C’è, persino nelle notti insonni, quando uno solo, russando, tiene svegli tutti e quanti. E c’è soprattutto nelle emozioni dei personaggi".
C’è un episodio vissuto durante uno dei suoi cammini che è entrato direttamente nel libro?
"C’è una cosa strana e inaspettata e bellissima che succede a Tonino detto Gandhi a pagina 262. Non è un fatto ma solo una sensazione molto forte. Tutto il resto è frutto della fantasia".
Cosa si scopre davvero camminando? Più il mondo esterno o sé stessi?
"Per me è stato fondamentale il mondo esterno, la vita intorno, e non solo nel senso del paesaggio o della gente con cui condividevo le distanze. Sono state fondamentali proprio le vite che ho sfiorato passando, i luoghi di lavoro, gli orti intorno alle case, quel tizio che disbosca un terreno, quello che fa lo jogging, la gente davanti ai bar con un bicchiere di vino. Come dico nel libro: Il progresso sarà anche merito dei talentuosi e dei pionieri ma da sempre la vita la portano avanti quelli che amano un pezzo di terra, una vecchia casa, il proprio lavoro. Ecco, è la bellezza di questo che ho scoperto".
Lei è sceneggiatrice oltre che scrittrice. In che modo la sua esperienza nel cinema e nella televisione influenza la costruzione dei personaggi e dei dialoghi?
"È stata fondamentale".
Qual è il “miracolo” più grande che ha vissuto nella sua vita da camminatrice?
"Il vero “miracolo” è stato percepire, davvero, emotivamente, che io sono una cosa minuscola che però fa parte di un qualcosa di enorme. E di conseguenza ridimensionare un pochino tutto quello che succede a me personalmente. Pur tenendoci molto".
Cosa spera che rimanga nel cuore del lettore una volta chiusa l’ultima pagina del romanzo?
"La sensazione di aver fatto un bel viaggio, ma anche la voglia di alzarsi dalla poltrona e partire.
E poi quell’idea che non si è mai veramente soli nella vita, perché — come dice Sam, uno dei personaggi del libro — siamo in più di sette miliardi: qualsiasi cosa ci stia succedendo in questo momento, da qualche altra parte del pianeta sta succedendo anche a qualcun altro".