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C'era una volta il femminismo senza inganni

L’antologia di Rossella Ghigi dimostra quanti danni produca "l’intersezionalità"

C'era una volta il femminismo senza inganni

Questa è una falsa recensione di Femminismi.

Un’antologia contemporanea a cura di Rossella Ghigi (Einaudi, 2024, euro 25) che è un tomo noioso del quale non ci importa niente o non per intero (ma l’abbiamo letto tutto) perché ci interessa solo l’ottantina di pagine che spiegano la degenerazione del femminismo moderno che ha soppiantato quello storico per farsi «intersezionale», patologia ideologica che, detto con parole nostre, mette su pesi diversi alcune selezionate categorie di donne; massima rilevanza, per esempio, a donne nere o non caucasiche di ceto e nazionalità terzomondista o ex colonizzata (vittime apparenti di segregazione anche culturale e di genere) e minima rilevanza, o d’ufficio, per donne iraniane o afghane vessate da regimi teocratici dove la parità tra uomo e donna non è pervenuta, e sostanziale indifferenza, ancora, per stupri o violenze compiuti da immigrati verso conterranee o donne bianche (anche italiane) e verso stupri e femminicidi commessi in Italia soprattutto da islamici. Queste le parole nostre. Ecco quelle che invece aprono il libro: Siamo «in un periodo paradossale, fatto di sensibilità postfemministe e arcaismi dal sapore talvolta revanscista», cui seguono 305 pagine di pesantezza endemica e incapacità quasi eroica di scrivere con sintesi e chiarezza.

La citata professoressa di sociologia dell’università di Bologna, epicentro del peggior neo-femmimismo italiano, ha all’attivo infiniti libri con la parola «genere» nel titolo, ed esegue con rigore la sua funzione: cataloga, ordina, classifica i femminismi in storico, radicale, differenzialista, nero, queer, postcoloniale, costruzionista, post-strutturalista e, nel farlo, registra l’esondazione di un paradigma che ha divorato tutti gli altri: l’intersezionalità, parola che oggi viene pronunciata con la disinvoltura con cui si un tempo citava Aristotele.

Per capire la mutazione basterebbe ricordare che cos’era il femminismo prima, ossia il femminismo storico che ha prodotto diritti e leggi a difesa delle donne (tutte le donne) in quanto donne, senza graduatorie e pedigree morali. Il femminismo universalista, realmente inclusivo, è quello in cui Olympe de Gouges nel 1791 rischia la ghigliottina per affermare che «la donna nasce libera», è quello di Mary Wollstonecraft che chiede pari dignità educativa, di Simone de Beauvoir che dice «donna non si nasce, lo si diventa», e che non aveva bisogno di quattordici sotto-identità per capire l’oppressione. Il femminismo storico è Carla Lonzi che parla di soggettività femminile e non di segmentazioni tribali, quello di Luce Irigaray che critica l’appropriazione simbolica del corpo femminile e non la donna «bianca» o «borghese», bensì la donna, punto. Il femminismo storico combatteva l’oppressione reale, non l’identità dell’oppressore; chiedeva parità, libertà, diritti; era progetto politico, non teologia sociologica per sociologhe che si leggono tra di loro.

L’intersezionalità, invece, nasce alla fine degli anni Ottanta con un articolo di Kimberlé Crenshaw su Stanford Law Review: un’osservazione concreta sulle discriminazioni sovrapposte verso le afroamericane, una fase embrionale ancora ragionevole, ma ecco, il concetto poi esplode e da chiave analitica diventa religione civile, tutto si legge attraverso «intersezioni», «matrici», «stratificazioni» e «soggettività situate». Patricia Hill Collins crea la matrice di dominazione; Audre Lorde ammonisce che «gli strumenti del padrone non smantelleranno la casa del padrone»; Angela Davis innesta marxismo e antirazzismo nel femminismo; Chandra Talpade Mohanty accusa l’Occidente di universalizzare la propria esperienza, e Nancy Fraser, ancora, denuncia alleanze tra femminismo e capitalismo culturale.

La mutazione è in atto, ecco il femminismo intersezionale «woke» che si fa selettivo e distingue tra donne degne o indegne di attenzione, dove una donna stuprata diviene un caso incasellabile in base alla pigmentazione dell’aggressore e dove una queer palestinese vale più di una iraniana ribelle ai mullah, e dove, pure, una nera povera surclassa una afghana minacciata dai talebani, e dove, ancora, una donna occidentale violentata da un immigrato vale meno di una donna non occidentale insultata da un poliziotto bianco. Sono parole nostre anche queste; il libro della sociologa non dice, ma mostra; mostra l’accademia che sterilizza la realtà, mostra la sostituzione del femminismo con un formulario identitario, mostra la dissoluzione della categoria «donna» in un mosaico di micro-soggettività che competono nel vittimismo.
È un femminismo che non difende: classifica. E non libera: ordina. Non guarda la violenza: guarda il curriculum etnico. Sono tutte idee che lontano dai certi corridoi universitari non sopravviverebbero dieci minuti, e che tuttavia fanno capolino in rivistelle femminili (che campano con pubblicità discretamente sessiste) o in piazze di vocianti scalmanate. La banale verità, che l’«antologia» non dice, è che il femminismo storico e quello intersezionale non sono varianti della stessa famiglia: sono opposti, incompatibili e reciprocamente ostili. Il primo ha costruito diritti; il secondo costruisce caselle. Il primo chiedeva libertà, il secondo pretende scusanti; il primo abbatteva gerarchie, il secondo ne crea di nuove e peggiori e più ipocrite.

Coerenza vuole che questo tomo accademico e illeggibile (coltello alla gola per studentesse) venga dall’università di Bologna, laddove, tra sociologia, gender studies e tradizione post-strutturalista, si è formata l’irrilevante matrice teorica dell’intersezionalità italiana: matrici di dominazione, corpi situati, discorsi decoloniali, soggettività razzializzate e altri orrori. Formule che non descrivono il mondo: lo sostituiscono. L’ateneo bolognese produce il lessico che i collettivi transfemministi assorbono per primi, tipo Smaschieramenti e Crash a Bologna, (ex) Askatasuna e Fenix a Torino, Acrobax a Roma eccetera. Gruppi queer di Milano e Torino amplificano e portano nel quotidiano, dopodiché il passaggio successivo è Non Una di Meno che trasforma in liturgia e manifesto e slogan e piazza. Le consultorie transfemministe come la Fam di Torino chiudono il cerchio, traducendo il già improponibile gergo accademico in prassi identitaria.
Come congeniale all’era woke, nulla che nasca dal basso, bensì nelle università: una Bologna qualsiasi inventa il lessico, i movimenti lo gridano, la piazza lo subisce, nulla di nulla accade nella realtà. Scampoli di femminismo storico intanto sopravvivono in associazioni nate prima dell’ondata intersezionale, con sigle varie (Udi, Cndi, Aidos, Telefono Rosa, D.i.

Re e altre) e si occupano di ciò che il femminismo faceva un tempo: diritti, tutela, servizi, politica concreta, senza glossari identitari né gerarchie di vittime. Spesso sono guidate da femministe anziane e aliene al mondo queer e ai centri sociali: non fanno troppo casino e non dettano linguaggi, anche se a loro, solo a loro, tante donne italiane devono qualcosa.

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