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"Dura un attimo il giorno", la cultura illumina in eterno

Claudio Magris realizza un’idea di sapere come "tratto umano". Quello che rischia di scomparire

"Dura un attimo il giorno", la cultura illumina in eterno

Nei suoi celebri Colloqui con Stravinskij il direttore d'orchestra e musicologo Robert Craft a un certo punto chiede al grande compositore cosa sia, secondo lui, la tecnica. La risposta di Stravinskij è pronta e precisa. «La tecnica» risponde «è l'uomo in toto». Ossia l'uomo nella sua interezza, niente escluso. E porta come esempio il suo amico pittore e scenografo Eugene Berman: «Una semplice macchia d'inchiostro fatta su un pezzo di carta dal mio amico Eugene Berman la riconosco istantaneamente come una macchia di Berman». Questa osservazione torna alla mente tante volte durante la lettura dell'ultimo libro di Claudio Magris, Dura un attimo il giorno (Garzanti, pagg. 340, euro 25): un libro necessario come lo è ogni libro che apra una nuova porta sul mondo del suo autore (e, insieme, sul nostro). Si è scrittori se si porta dentro una ferita e se si è in grado di ferire il lettore della stessa ferita, fidando nella comune catarsi (che può essere soltanto comune). Magris lo è pressoché a ogni libro, e questo non fa certo eccezione.

Dura un attimo il giorno è, tra i libri di Magris, il meno strutturato, il meno imbottito, e potrebbe apparire quasi inutile, invece è uno dei suoi più belli. Non ha un centro tematico voluto, riconoscibile. La disposizione dei testi segue un semplice ordine cronologico, dal 2017 al 2025, così che sui temi costanti (quelli che possiamo chiamare i temi «classici» di Claudio Magris) si sostituiscono piuttosto - come nella vita - le occasioni. Che possono essere un libro appena uscito, un caso biografico, una ricorrenza, un premio, una presa di posizione del Papa, e così via. Emerge così, forse meglio che altrove, un'idea del sapere: un sapere che diventa tutt'uno con l'umano e, in quanto umano, non teme di esporsi, non ha più paura di essere smascherato o di apparire troppo temerario quando si tratta di affrontare mostri sacri come Nietzsche (di cui Magris ritiene inaccettabile la polemica contro Wagner) o come Charles Darwin (che lo scrittore definisce esperto più di brontosauri che di uomini). Il tema religioso acquista qui un'importanza sempre maggiore, con pagine bellissime dedicate, per esempio, al tema della speranza, caro a Papa Francesco ma non a un importante filone culturale classico-illuminista che, pure, Magris conosce a fondo. Sempre di più la cultura giudaico-cristiana assume in lui la stessa importanza di quella greco-latina non solo nella formazione di una civiltà (quella europea) che oggi sembra aver rinnegato tutte e due le sue radici ma anche, si direbbe, nell'ambito di una meditazione personale.

Non mancano, come visto, le garbate ma ferme polemiche. Con riferimento agli inquietanti sviluppi delle ricerche sull'Ai, considera l'attuale produzione letteraria come una riedizione di quella degli anni Trenta e Cinquanta poiché questa come quelle «si confrontano raramente con quel fuoco sotterraneo, con quel corto circuito fra l'umano e il non-umano con cui la scienza costringe, anche chi non la studia e non la conosce veramente (sic!), a fare i conti». E dichiara, senza dichiararlo, il declino della narrativa come sistema: fenomeno ormai marginale rispetto al dilagare di un malessere che erutta dagli abissi della nostra civiltà con il suo racconto spesso muto o silenziato. Con anni di anticipo, già nel 2017, Magris prevedeva anche gli effetti prossimi venturi in Occidente degli oscuri rivolgimenti del mondo ex-sovietico, di cui le cronache al tempo parlavano pochissimo. E anche questo fa parte in qualche modo del grande romanzo che non sappiamo più scrivere (o che nessuno vuole pubblicare).

Ma la pacata spregiudicatezza e la malinconica chiaroveggenza che animano le sue pagine hanno la loro radice in un'idea di cultura e del suo valore, di cui si rischiano di perdere oggi le tracce. Come una passacaglia, come un ritornello sempre dissimulato, una domanda si ripresenta, e riguarda la natura stessa del lavoro intellettuale. La domanda è questa: cosa autorizza un uomo, un uomo che non è un politico, né uno scienziato, né un uomo d'armi, né un magistrato o un giudice, e che non ha esperienza diretta di queste come di altre cose - bene: cosa lo autorizza a formulare giudizi, opinioni, talvolta azzardare teorie su di esse? Si dovrebbe parlare di ciò di cui si fa esperienza, ma che cos'è l'esperienza? In uno degli articoli più belli del libro, Preghiera per i gauchos, l'autore cita una frase fulminante scritta dall'allora giovane Jorge Mario Bergoglio nella prefazione al Martín Fierro, poema nazionale argentino: «Che cosa ha a che fare il gaucho con noi?». Ossia: che nesso c'è tra il destino spesso bizzarro di un individuo e il destino di tutta l'umanità? Qui emerge il tema dell'esperienza, poiché il senso ultimo dell'esperienza è l'uomo che ciascuno di noi decide di essere prima delle singole esperienze. Si chiama cultura. Il rifiuto delle opinioni di Nietzsche su Wagner non dipende da chissà quale teoria filosofica antinietzschiana: Nietzsche non può dire quelle cose semplicemente perché sono enormità senza senso, punto e basta. Come dice un amico filosofo, un paio di scarpe può costare ottocento euro, ma non ottantamila, sarebbe intollerabile. Cultura è anche questo: non essere disposti ad accettare tutto, a giustificare tutto, a introdurre i soliti «ma» e «però» e «tutto sommato» con i quali ci defiliamo dalle nostre responsabilità. In quello che resta, a mio avviso, il film più bello del nuovo millennio, Mulholland Drive di David Lynch, un bizzarro personaggio rivolge a un regista di cinema un quesito: «L'atteggiamento di un uomo verso l'esistenza determina a grandi linee quello che sarà lo svolgimento della sua vita: lei è d'accordo?». E poiché il regista si dice d'accordo, questo personaggio commenta: «A lei, dunque, non deve piacere la vita tranquilla». Già: dire la verità non concede giorni tranquilli.

Dura un attimo il giorno è, prima di ogni altra cosa, una testimonianza potente di cosa voglia dire essere un uomo di cultura: è un timbro umano (la macchia d'inchiostro di cui parla Stravinskij) lasciato sui temi trattati, prima di qualunque opzione ideologica; è la capacità di illuminare il senso delle cose andando oltre la cortina dei nomi dietro la quale le nascondiamo. Come fa Tacito al cospetto dei popoli germanici, di cui riconosce la profonda religiosità nascosta sotto ingenue credenze: Deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola reverentia vident.

«Danno nomi divini a quel mistero che riconoscono solo chinando il capo». La cultura è questa cosa, di cui pochissimi sono capaci (Magris è uno di loro), e dalla quale uno tsunami di violenza ideologica e morale di tutti i colori ci allontana ogni giorno di più.

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