
Maialino, giraffa, scimmia: così l’avvocato Roberto Clemente vede i suoi clienti, come degli animali; quanto a lui, ricorda un musicista dell’Ottocento, per via dell’accenno di basette e degli abiti attillati che indossa e che gli donano molto. Bravo disegnatore, a volte allenta i freni della sua riservatezza, che rasenta il patologico, e mostra agli amici le caricature che traccia a matita nelle more dei processi o nei momenti di flânerie che riesce a ritagliarsi durante la giornata; per esempio quando si reca al porto per prendere la prima colazione o pranzare all’ombra delle immense navi che vi attraccano. «Una sua anziana cliente era diventata una gigantesca lumaca bavosa…». Misantropia che ha origini lontane, risalenti all’epoca in cui all’università seguiva le lezioni di diritto di «un vecchietto minoritario che aveva letto Kant e Hegel in tedesco e conosciuto Altiero Spinelli e gli sconfitti di Ventotene ». Anche Roberto ripete volentieri il dolce mantra gobettiano del Paese nato storto – «la Ragione e la Sapienza perdute» – ideologia che forse è semplicemente la sublimazione di un’infanzia triste. Il padre, mai conosciuto, era uno scrittore velleitario appassionato di rock e motociclette scomparso a trent’anni in un incidente stradale, «abbracciando una quercia»; la madre, un’infermiera, muore anche lei presto, lasciando in eredità il minuscolo appartamento nel dedalo di stradine dell’impervia città vecchia nel quale si svolge gran parte dell’ultimo libro di Claudio Piersanti, La finestra sul porto (Feltrinelli, pagg. 160 euro 17). Visto che siamo in un romanzo, è chiaro che ad un certo punto si udirà il colpo di cannone che scaraventa il protagonista nella vita vera, adombrata da una rissa con tanto di naso rotto e graffi profondi cui egli assiste mentre pasteggia sul molo, deprimente spettacolo gratuito offerto da una coppia sbarcata da una nave da crociera.
Lo smottamento esistenziale capitale si verifica quando l’archeologa di cui in segreto Roberto è innamorato, Maria, è costretta ad affrontare la progressiva perdita di senno del marito Piero, che è anche l’amico più caro di Roberto. Meglio non rivelare le dinamiche del triangolo che ne segue; Piersanti è un maestro nel giocare con i sentimenti più profondi – l’amore, il senso di colpa, la vergogna, la speranza – che inevitabilmente si impossessano dei personaggi. Gestire la tragedia in un contesto borghese (cioè in un contesto che la nega e che prospera su questa negazione) è la fatica di Sisifo che ogni romanziere deve mettere in conto e Piersanti di certo non si sottrae al compito. Quello che costituisce il fascino dei suoi romanzi è che la tragedia, sebbene metabolizzata, continui ad incombere, lasciando il lettore in una condizione di inquietudine sulla possibilità stessa della felicità. L’originalità di Piersanti non sta nel dettaglio, che è naturalistico; deve essere cercata, invece, sul piano delle grandi strutture narrative, liberamente deformate nelle dimensioni e quindi sabotate; e in alcuni temi allarmanti, occultati nei punti ciechi dell’intreccio. L’idillio fra Roberto e Maria, per esempio, non occupa lo spazio di un episodio, ma si estende su metà della vicenda, cosa che spinge a chiedersi se non sia tutto troppo bello per essere vero.
A ben vedere, a produrre un simile effetto di allucinazione, di euforica irrealtà, contribuiscono il controllato élitismo del protagonista e i tratti teriomorfi prestati agli “altri”, i fili edipici che legano Maria alla madre di Roberto, il fatalismo senza il quale la nuova relazione non potrebbe nascere; persino il mare, elemento vitale e allegro che custodisce abissi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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