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Siamo tutti zombi danzanti in un eterno carnevale digitale

La morte in diretta dello streamer Jean Pormanove è l'ultima "prova" del grave rischio di nichilismo tecnologico

Siamo tutti zombi danzanti in un eterno carnevale digitale

«Lo smartphone è una sorta di ago ipodermico della contemporaneità che somministra dopamina digitale, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, a una generazione sempre connessa» scrive Anna Lembke, psichiatra e docente a Stanford, specializzata in dipendenze, nel suo saggio L'era della dopamina (ROI Edizioni, 2022). Nel titolo originale, Dopamine Nation, c'è una sfumatura ulteriore: la tribalità culturale della nazione intesa come corpo che si forma in maniera separata rispetto allo Stato. La nostra continuativa connessione a mezzo dei mezzi tecnologici e la presenza ormai costante sui social alterano in maniera chimica e neurologica la nostra percezione del reale. Il filosofo Maurizio Ferraris ha parlato, riprendendo Ernst Jünger, di «mobilitazione totale»: non riposiamo, non disconnettiamo la mente, siamo stimolati e sollecitati perennemente. L'esistenza rifluisce a confuso labirinto immerso in una coltre di polemiche, dialoghi vuoti e dopamina continuamente eruttata da pareti di silicio. Riti dionisiaci digitali celebrati da capri espiatori avviati, forse inconsapevolmente, lungo il viale dell'autodistruzione, ci si parano davanti gli occhi e diventano l'unico elemento capace di avvincerci e di scuoterci dall'assuefazione a un eterno stato di frenesia. Proprio per questo deve indignare ma non può stupire la notizia giunta dalla Francia: la morte, pochi giorni fa, del popolare streamer Jean Pormanove. E se all'inizio si diceva fosse morto a causa di un'agghiacciante sequenza di sevizie e umiliazioni patite da due altri streamer, il tutto ripreso dalla videocamera in una sorta di rigurgito da dark web o da materializzazione del Videodrome di David Cronenberg, poi i lanci di agenzia hanno quasi rassicurato. Pormanove sarebbe morto per motivazioni medico-tossicologiche. Già nelle chat e nei forum ci si scatenava nel dare la colpa alla sua cagionevole salute, lui quasi scheletrico, spettrale: ci si autoassolveva dalla canea di commenti eccitati che avevano richiesto e imposto, durante la diretta, sevizie, violenze, degradazioni. Per non farsi mancare nulla: umiliato e vessato con lui un altro streamer, disabile. Ma in questa abiezione si è quasi obliato un fatto che invece non va taciuto: Pormanove, quando è morto nel sonno, un sonno ripreso in maniera spietata dalla videocamera, era al decimo giorno di riprese, senza sosta. Un'autentica ordalia digitale. Gli abusi che pativa e che facevano parte del progetto di content elaborato con i propri seviziatori andavano avanti da mesi. Una ballardiana mostra delle atrocità nella quale avanza il sentirsi vivi degli spettatori-voyeur, gratificati nell'assistere all'atto della distruzione, magari incoraggiandone lo sviluppo a suon di donazioni e commenti.

C'è, in questa oscenità, il progetto di trasformazione del reale e quell'utilizzo strategico della violenza da parte di attori che in modo mostruoso si autoescludono dalla società mainstream e di cui parla, riprendendo la teorizzazione di René Girard sul capro espiatorio, Stefano Tomelleri. Pormanove, purtroppo e proprio per questo, non è il primo e non sarà l'ultimo. E senza dover arrivare alla tragedia, è innegabile come le nuove piattaforme non facciano altro che proporre proprio l'ordalia, la resistenza senza senso e contenuto, quale unico dato sostanziale. Piattaforme come Twitch, di proprietà di Amazon, e l'australiana Kick, nate nel nome della cultura del gaming, sono divenute dei carnevali digitali di improvvisati opinionisti che giocano e parlano di tutto, senza fermarsi, per ventiquattro, quarantotto o più ore, spesso dopati da energy drink o altro. Ma non basta, eccoli promettere ai propri sottoscrittori gesti eclatanti o challenge particolari, sovente estreme, se gli spettatori verseranno un certo ammontare di denaro, sotto forma di «sub», cioè di sottoscrizioni. E se i social media producono dopamina attraverso la gratificazione dei «mi piace», dei commenti, delle condivisioni e quindi dell'engagement, la cultura del gaming e dello streaming, vale pure per TikTok, ne produce attraverso la ricompensa, consista questa in denaro, popolarità e persino - è uno degli indicatori delle analytics attraverso cui seguire Twitch - delle ore performate in streaming. Questo senso quasi sessuale di gratificazione, generato dalla potenza del riconoscimento sociale e dell'esercitare influenza, è qualcosa che lega gioco e sfera del sacro. Scriveva Johan Huizinga nel suo Homo ludens: «il gioco umano in tutte le sue forme superiori, in cui significhi o celebri qualche cosa, occupa un posto nella sfera di festa e di culto, nella sfera sacra». Si potrebbe mai rinunciare all'ebbrezza di sentirsi affini all'officiante di un culto o, peggio ancora, a una divinità pagana? Non è più l'effimera e oleografica celebrità preconizzata da Andy Warhol, ma traslazione nel campo del divino. È questo in fondo il drammatico lascito di quella «tecnologia carismatica» applicata al gaming, a cui tanto le piattaforme social in termini di modellazione algoritmica si ispirano e di cui parla Adrian Hon nel suo La società della ricompensa (LUISS University Press, 2024). Gli stessi Facebook e Instagram che la dopamina ce la somministrano sotto forma di «mi piace» e cuoricini si sono modellati secondo queste regole. Pochi anni fa Instagram ha occultato agli spettatori i «like» ricevuti dalle foto, ma non li ha però nascosti al proprietario della foto stessa: un meccanismo perverso, perché l'aver eliminato agli occhi altrui i «like» incoraggia a postare di più, facendo scomparire la paura del giudizio che scatterebbe invece davanti contenuti di scarso successo. E chi posta diviene poi oggetto di uno stillicidio di notifiche che lo invitano a celebrare per aver raggiunto anche poche centinaia di visualizzazioni. In questo abuso dopaminico di festa permanente, le sensazioni forti non bastano più. Ne vogliamo sempre di nuove, di più estreme. Risultato? Emozioni da poco prezzo innervate in una spirale bulimica sempre più tragicamente accelerata. Carlo Carboni, nek suo saggio Magia nera (LUISS University Press, 2020), ha parlato di angoscia davanti una società iper-connessa e tecnologizzata che accelera sempre di più. L'accelerazione senza freni è il portato dei social media, dello streaming, della creazione di contenuti: l'imperativo ormai è essere sempre performanti, attrarre attenzione, senza mai decelerare e senza mai ritagliarsi uno spazio privato. È la luce bianca della velocità che porta all'accecamento, quella luce scorta da Paul Virilio e che rende queste dinamiche fatto sociale totale.

Sempre più streamer di grande successo, di recente lo ha fatto il Masseo (vero nome Edoardo Magro), parlano dei drammi psicologici e del burnout che questo abuso di dopamina artificialmente stimolata induce. Decelerare ormai non si può più, almeno però ci si chieda seriamente dove stiamo correndo.

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