Per una libera impresa in libero Stato

di Carlo Lottieri

Perché il profitto, la proprietà e la libertà contrattuale sono ai margini della cultura? Perché - come rileva Sergio Travaglia nel suo Il manifesto dell’impresa (Mind), di cui si è parlato ieri su queste pagine - la parola «impresa» non è presente nel testo della costituzione italiana? Provare a rispondere obbliga a prendere in considerazione questioni cruciali per la nostra civiltà, che nel passato ha saputo aprire orizzonti nuovi, ma ora appare incapace di fare i conti con la propria crisi. A mio giudizio, il primo e principale atto d’accusa in vario modo indirizzato all’economia libera è che essa può fare emergere diseguaglianze rilevanti. Lasciare spazio alle attività imprenditoriali permette a un ventottenne come Mark Zuckerberg di diventare una delle persone più ricche al mondo dopo pochi anni di lavoro. La nostra società non solo ha eliminato dall’orizzonte l’antico Dio biblico: spesso non è disposta ad accettare alcun tipo di successo, gerarchia, autorità, diseguaglianza. Se c’è un tratto che ha accomunato le culture novecentesche è stato il populismo egualitario, fiero nemico di ogni borghesia. L’esito paradossale è stato lo strapotere dei dittatori e dei partitanti della Casta, ma tutti si sono sempre «venduti» come i difensori dei deboli. C’è però molto altro. La società libera che ammette al suo interno le logiche imprenditoriali è anche una società aperta alla trasformazioni, disposta a incontrare il nuovo, nemica di ogni chiusura. Nel nuovo paganesimo che idolatra il presente, invece, c’è un autentico terrore verso ogni processo evolutivo. Di ciò o è assai rappresentativo il trionfo indiscusso del «principio di precauzione», che vieta l’utilizzo delle innovazioni prima che non si sia certi che non produrranno conseguenze anche negative (e che avrebbe impedito, nel passato, l’invenzione del fuoco). Al contrario, se l’America continua ad avere più chance dell’Europa, molto si deve al diverso atteggiamento di fronte al cambiamento: che oltre Atlantico è spesso inteso come un’opportunità e da noi come una minaccia. È vero che in tanti casi quanti avversano le imprese dispongono di buoni argomenti. In società a forte presenza dello Stato come sono oggi quelle occidentali, è difficile trovare attività economiche che si reggano esclusivamente sui profitti, e quindi sui servizi resi ai clienti. In Italia, ad esempio, moltissime aziende sono pubbliche o legate al settore pubblico, da cui ricevono commesse e protezioni. In questo quadro, non sempre è facile individuare il confine tra un profitto legittimo e una rendita parassitaria. Per giunta, la rappresentazione dell’impresa che oggi prevale - tra i detrattori come tra i difensori - è contestabile. Per gli uni e per gli altri ogni azienda sarebbe solo un marchingegno impersonale che realizza profitti nel disinteresse di ogni aspetto della realtà e fuori da ogni scrupolo: come se Machiavelli avesse scritto non già Il Principe ma L’amministratore delegato. Non si riesce a cogliere quello che invece è il valore proprio dell’impresa, quale occasione per far fiorire la terra grazie alla creatività umana: e in virtù di un costante sforzo di persone che si mettono al servizio degli altri. Quello che non si riesce ad afferrare è che nell’impresa c’è la civiltà di relazioni che si impongono volontariamente, rigettando i meccanismi coercitivi che sono al cuore, invece, dei sistemi statali.

Quello che non si capisce, insomma, è che la ricchezza generata dalla aziende di mercato è solo il sottoprodotto di un ordine basato sul rispetto dell’altro. Ma se non afferreremo questo, difficilmente, sapremo affrontare o motivi più profondi delle nostre difficoltà.

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