Marzio G. Mian
Sandro Pertini in questi giorni deve essere un demonio nella tomba. Lui che amava così tanto il Maresciallo Josip Broz Tito da baciarlo a ogni occasione (e ve ne furono parecchie) con un trasporto partigiano simile a quello dell'iconico bocca-a-bocca tra Breznev e Honecker, non si darà pace di fronte alle picconate inferte in Croazia a uno dei massimi simboli nel pantheon internazionale della lotta antifascista. Il comune di Zagabria ha appena cancellato Trg Marala Tita, piazza cuore della capitale, dominata dal maestoso teatro nazionale e riferimento per i nostalgici del dittatore e della vecchia, disciolta, Jugoslavia al grido «Smrt faizmu, sloboda narodu!», morte al fascismo, libertà ai popoli. Ora si chiama asetticamente piazza della Repubblica croata.
A proposito di presidenti e picconate, il pensiero va anche a Francesco Cossiga, il quale nel 2009 applaudì alla decisione del comune di Lubiana di intitolare un viale centrare al Maresciallo (a insegna già affissa, arrivò la revoca dalla Corte costituzionale secondo cui le «violazioni dei diritti umani e i suoi crimini» erano incompatibili con la nuova Slovenia democratica); era lo stesso Cossiga primo presidente della Repubblica a inginocchiarsi alla foiba di Basovizza, chiedendo scusa per una «classe politica imbelle» che non aveva avuto il suo stesso coraggio - salvo poi, nel 2004, auspicare che a Trieste si erigesse un monumento a Tito. Coerente con il suo stile, un omaggio agli infoibati e uno all'infoibatore. Così, mentre l'Italia è l'unico paese in Europa a ospitare ancora ben dieci vie intitolate a colui che procurò la morte di circa diecimila civili italiani e l'esodo di altri 350mila da Istria, Fiume e Dalmazia, la Croazia, terra natale del Maresciallo, sta facendo piazza pulita. Nelle scorse settimane aveva provveduto Karlovac e prima ancora lo sfratto era arrivato da Sebenico, Zara, Mursko e tanti comuni più piccoli. Lo scorso maggio a Kumrovec, sul confine sloveno, città d'origine di Tito, nell'annuale celebrazione della nascita si è registrato, secondo la stampa locale, un calo delle presenze del 40 per cento rispetto a cinque anni fa e la quota di fan croati era meno del 10 per cento. In effetti questo movimento di liberazione dal liberatore e padre della Jugoslavia si registra soprattutto nella Repubblica che storicamente ebbe meno vantaggi nella Federazione rispetto a Serbia e Slovenia (in quest'ultima, terra della madre di Tito, era in parte concessa la proprietà privata); è lo Stato che più ha guadagnato dalla dissoluzione e dalla guerra interetnica degli anni Novanta, e che coltiva, sempre più esplicitamente, nostalgie di ben altro segno rispetto ai vicini ex jugoslavi. Una volta svolti disciplinatamente i compiti a casa su pressione dell'Europa - riforme progressiste in tema di diritti civili e ambiente, un'agenda di politica estera distensiva verso la Serbia - con l'entrata nell'Ue nel 2013 l'aria è presto cambiata e la Croazia si è sintonizzata sulla stessa lunghezza d'onda di altri paesi ex comunisti dell'Europa orientale; ad esempio con un referendum per l'introduzione nella costituzione della definizione di matrimonio come unione tra uomo e donna. Ma al posto del tema migranti, così ossessivo in Ungheria, Slovacchia e Polonia, a Zagabria tiene banco il vecchio cavallo di battaglia che nei Balcani fa sempre audience: la storia. La leadership di destra, ispirata da Tomislav Karamanko, segretario dell'Hdz, il partito fondato da Franjo Tudjman, ha ripreso a coccolare i veterani della «guerra patriottica» contro la Serbia e a fare rivivere vecchi fantasmi. Mettendo per esempio sullo stesso piano la commemorazione del sito di Bleiburg, dove le truppe di Tito massacrarono migliaia di collaborazionisti, cioè gli ustascia di Ante Pavelic, sanguinario alleato di Hitler, con quella del campo di concentramento ustascia di Jasenovac (dove tutt'oggi campeggia indisturbata la scritta «Za Dom spremni!», equivalente del saluto nazista «Sieg Heil!»). Senza dire delle recenti cerimonie, sostenute dai partiti di governo, per il ventennale della riconquista di Knin, nella Krajna dove le truppe nazionaliste furono responsabili di una delle peggiori pulizie etniche ai danni della minoranza serba, lì presente da mezzo millennio.
«Piazza Tito passa alla storia, e speriamo che ci resti», ha esultato il presidente dell'assemblea comunale di Zagabria Andrija Mikulic sancendo l'esito della votazione. Infatti le targhe verranno consegnate al museo storico cittadino. E Zlatko Hasanbegovic, ex ministro della Cultura dell'Hdz e ora consigliere comunale per l'estrema destra, ha dichiarato che si tratta «di una piccola e tarda soddisfazione per tutte le vittime del terrore comunista jugoslavo durante e dopo la guerra». Nessun segnale anti titoista invece, per ora, nelle altre Repubbliche, dove anzi la jugonostalgia continua a essere un malinconico sfogo mentale per i disastri sociali ed economici seguiti alla guerra degli anni Novanta; ma anche un fenomeno di costume e di business, con tour nei luoghi simbolo di Tito, dal bunker in Bosnia, all'isola di Brioni, alla tomba di Belgrado, oppure con la riproduzione del triste ma evocativo design jugo-rétro, come accade anche nella ex Ddr. «La sensazione, soprattutto in Serbia, ma anche in Slovenia, Bosnia, Montenegro e Macedonia, è che si vivesse molto meglio 30 anni fa, che ci fosse più sicurezza e felicità. C'è un senso interiore di sconfitta. Si idealizza quel tempo, ma non c'entrano né Tito né il comunismo», dice la storica serba Dubravka Stojanovic. Infatti un recente sondaggio Gallup evidenzia come l'81 per cento dei serbi e il 77 per cento dei bosniaci ritiene che la fine della Jugoslavia è stata la causa della loro attuale infelicità.
Quelli che più sorprendono sono i dati della Slovenia, che con l'ingresso nell'Ue e nell'euro dava l'impressione d'essersi definitivamente emancipata dal passato balcanico: ben il 45% ritiene che si stesse meglio con i vecchi compagni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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