Libero dopo 15 omicidi, ha ucciso ancora

L’ultima volta per fermarlo i carabinieri dovettero sparare. Era l’ottobre del ’97, Torino. Due proiettili in corpo, solo a quel punto si arrese. Era in semilibertà, aveva appena fatto un paio di rapine e sequestrato una mamma col figlioletto, il camorrista Michelangelo D’Agostino. Eppure circolava tranquillo, di giorno ufficialmente muratore, la sera in cella. Libero, proprio come domenica, quando in un parco di Pescara ha freddato l’uomo che gli era antipatico: Mario Pagliaro, incauto sessantatreenne proprietario di uno stabilimento balneare. Una banale lite, un rimprovero: «Non fai bene il tuo lavoro, ti devono cacciare». Un colpo al petto e uno in testa, hanno troncato la discussione. Sedicesima tacca sulla sua pistola di killer.
Già perché il guardiano di Villa de Riseis, tutto era ed è fuorché un custode. Da 48 ore polizia e carabinieri lo cercano dappertutto, lui sembra evaporato. Tra due settimane avrebbe dovuto tornare in carcere. E probabilmente già aveva deciso di non voler tornare a rivedere il sole a scacchi. Godeva di una sorta di permesso premio, in termini legulei si chiama «licenza trattamentale a persona internata in carcere». Che vuol dire? Semplice: anche un assassino spietato, un uomo che nella hit parade del crimine godeva del soprannome de «il killer dei 100 giorni» (per via di quindici omicidi in tre mesi, ndr) in Italia può circolare nel civile consorzio. A dispetto della galera ancora da scontare. Dei crimini commessi.
Cinquantatré anni vissuti pericolosamente, da guappo prima, a sicario e uomo di fiducia del boss Cutolo poi, a pentito infine, D’Agostino tre mesi fa, era riuscito a convincere il Tribunale di sorveglianza a farlo uscire. Giusto per tre mesi, un lavoro come guardiano nel parco di Pescara sotto l’affidamento della Cometa, cooperativa piena di buone intenzioni per il recupero di soggetti «cattivi».
Fu proprio lui, nel 1984, uno degli accusatori di Enzo Tortora, il giornalista e presentatore arrestato e poi scagionato dopo un terribile calvario giudiziario. Si spacciava per pentito D’Agostino. E fu creduto. Gli avevano anche ucciso il padre Isidoro, per via delle sue confessioni.
Eppure, questo mingherlino dal pizzetto francescano, tutto sarebbe sembrato tranne che un killer spietato. Diceva di sé, ai giudici e giornalisti: «Sono come l’ayatollah Khomeini. Con una sola differenza: lui distribuisce passaporti per il paradiso. Io per l’inferno». Raccontava, invece il parroco del suo paese: «Era assiduo nelle funzioni, credevo che sarebbe entrato in seminario».
Coi giudici, D’Agostino non ebbe problemi ad ammettere che «uccidere è quasi un gioco. Ho cominciato per caso, poi ci ho preso gusto e ho continuato. Prendevo a calci i cadaveri; baciavo la pistola sporca di sangue. Ma mi eccita di più ’na tazzulella ’e caffè».
Ecco chi è l’uomo che domenica pomeriggio, davanti agli occhi di madri e bambini ha freddato Mario Pagliari. Ieri è nato un suo nipote, sarebbe diventato nonno.
Inevitabile monta la polemica. «Un delitto che si sarebbe potuto evitare con un reale sistema di controlli sui soggetti detenuti ammessi a misure alternative alla detenzione», attacca Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Penitenziari.

«Se il servizio di controllo fosse stato affidato alla polizia penitenziaria - osserva il leader del sindacato - è immaginabile che la pistola detenuta da D’Agostino nello spogliatoio adibito a dormitorio sarebbe stata rinvenuta».

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