Libero il canaro della Magliana: seviziò, mutilò e uccise un pugile

De Negri lascia il carcere per buona condotta dopo 16 anni. Sarà affidato ai servizi sociali

Libero il canaro della Magliana: seviziò, mutilò e uccise un pugile

Claudia Passa

da Roma

Libero. Con due anni d’anticipo, e il solo «fastidio» di dover restare in casa fra le 21 e le 7 del mattino, di non poter frequentare pregiudicati né osterie, di non poter lasciare la provincia di Roma senza permesso. A star col fiato sul collo di Pietro De Negri, «er canaro della Magliana», non saranno più i secondini che l’hanno tenuto d’occhio nei sedici anni della detenzione «modello» che gli è valsa la scarcerazione anticipata, ma il ricordo dell’atroce delitto che nel ’91 gli costò la condanna definitiva.
Era il 18 febbraio 1988 quando De Negri, tosacani della periferia romana (da qui il soprannome), marchiava una delle pagine più cruente nella storia «noir» col sangue dell’ex pugile Giancarlo Ricci, chiuso in gabbia, torturato e mutilato fino all’ultimo rantolo di vita. Diciassette anni dopo l’orrore, sedici anni dopo l’arresto, è il tribunale di sorveglianza presieduto da Pietro Canevelli ad aprirgli le porte del penitenziario di Rebibbia accogliendo un ricorso della difesa e affidandolo ai servizi sociali con alcune prescrizioni. Effetto della buona condotta e dei benefici riconosciuti ai detenuti dopo molti anni di carcere, fanno sapere i difensori per i quali al canaro «non è stato regalato nulla».
Oggi De Negri ha 49 anni. Ne aveva 32 quando Ricci, di un lustro più giovane di lui, anni prima suo complice in una rapina, colpevole - a detta del canaro - di averlo umiliato ripetutamente, estorcendogli denaro e picchiandolo davanti alla figlia, infilava il retrobottega della toletta per cani. Sarebbe stato il suo ultimo atto, prima che il suo carnefice, sazio di cocaina e assetato di vendetta, lo facesse entrare con un pretesto in una delle gabbie per quadrupedi di lì a qualche minuto trasformata in mattatoio.
Quel che viene dopo è storia. Chiudere il pugile dietro le sbarre, stordirlo con la benzina e con una bastonata in testa è un attimo. Di più ci vuole a farlo morire: non basta mozzargli le dita delle mani, non basta bruciargli le ferite cosparse di carburante. Il «canaro» è esigente. Ricci sanguina, ma non può urlare, perché nel frattempo un arnese di metallo gli si abbatte sulla mascella, e la lingua viene recisa. Poi tocca ai genitali, tagliati. Agli occhi, strappati dalle orbite. Quindi il lavoro di forbici sul volto, sulle orecchie, sul naso, «in modo simmetrico - dirà l’assassino sotto interrogatorio - come faccio per i cani, perché volevo che somigliasse a un cane».
Nonostante ciò, il pugile non muore di dolore. Non muore neppure dissanguato. Muore soffocato, perché in bocca il suo aguzzino gli infila le parti del corpo mutilato. Sul cadavere l’ultimo scempio: De Negri gli spacca il cranio a martellate, poi lo riempie di shampoo per cani.
Il corpo, incaprettato e caricato su un’automobile, finisce in una discarica. Inutile è il tentativo di dargli fuoco. Quando viene ritrovato, il «canaro» impiega due giorni a confessare. Non è pentito. Col pretesto dell’effetto-cocaina, ottiene la libertà provvisoria perché «non socialmente pericoloso». Fino al nuovo mandato di cattura, che lo porta al manicomio di Montelupo Fiorentino. Quindi arrivano i tre gradi di giudizio. La condanna in primo grado, l’aggravio in appello e la conferma della Cassazione dove l’assassino gela i giudici con un memoriale: «Se rinascessi, lo rifarei».


Prima di Rebibbia, De Negri assaggia il carcere sardo di Badu ’e Carros, dove nel 2000 inizia lo sciopero della fame suscitando un accorato appello-stampa della moglie. All’ex «barbiere» dei cani veniva impedito di dipingere e fare la doccia.

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