Se il Muro di Berlino fu abbattuto nel 1989, ci vollero altri undici anni perché il nome di Varlam Shalamov potesse tornare a essere pronunciato con rispetto nel territorio dell’ex-impero sovietico. Avvenne nell’aprile del 2000, quando già da alcuni mesi Vladimir Putin sedeva al comando del Paese che, da nemico del capitalismo occidentale, ne era diventato già da qualche anno la new frontier. Già a quel tempo, la parola «miliardario» e la parola «russo» andavano in coppia, con quell’altra, «mafioso» che gli rotolava dietro.
Ma per riabilitare Varlam Shalamov non bastava la fine del comunismo, compreso il suo celebre Libro Nero (datato 1998), non bastava la partecipazione della Russia al banchetto del consumismo, non bastavano i G7 e i G8. Perché il problema che quest’uomo ha incarnato in modo unico e irripetibile, e che lo rende diverso da tutti gli altri eroi della libertà - da Grossman a Sacharov - è qualcosa che oltrepassa radicalmente i limiti della stupidità comunista e della sua bieca antropologia per saldarsi piuttosto al punto in cui, tragicamente, quella stupidità diventa geniale forma universale, destino di corpi e anime e quindi possibilità incessante, mai morta, a tutte le latitudini del pensiero umano.
Cosa ha fatto Varlam Shalamov per meritare una biografia fatta completamente di carcerazioni, deportazioni, lavori forzati e, alla fine, dimenticanza completa?
Leggete Alcune mie vite. Documenti segreti e racconti inediti (a cura di F. Bigazzi, S. Repetti e I. Sirotinskaja, Mondadori, pagg. 306, euro 25) e lo saprete con tutta la precisione possibile: la colpa, la vera grande colpa di Varlam Shalamov fu quella di non aver fatto niente. Niente che somigli anche lontanamente a un crimine. Nessun omicidio, nessuna azione sediziosa, nessun atto terroristico. Eppure le parole, le mezze parole attribuitegli, le preferenze espresse, i giudizi letti a fior di labbra, tutto fu usato contro di lui. Furono istruiti falsi testimoni (che a quell’epoca facevano a spintoni per tradire, pur sapendo spesso che proprio il loro zelo li avrebbe, poi, uccisi).
Perché?
Nato nel 1907 da padre prete (la colpa è già nell’atto di nascita, come poi i documenti relativi al suo caso non mancheranno di registrare), abbraccia con gioia la rivoluzione. Ma a ventidue anni viene arrestato come individuo socialmente pericoloso (non è solo trotzkista, ma considera deviante la politica di Stalin, che proprio in questi anni ha consolidato il proprio potere). Negli scritti che accompagnano questo primo arresto (1929-31) il giovane rivoluzionario appare stupito del fatto che opinioni semplici come la sua non possano più essere espresse. Tuttavia sente che il carcere gli farà bene. Con la carcerazione nasce anche il grande scrittore che Shalamov ancora non sa di essere. Ecco l’incipit del suo racconto sull’esperienza del carcere di Butyrki: «Sono stato arrestato il 19 febbraio 1929. Considero questo giorno, e quest’ora, l’inizio della mia vita sociale, il mio primo vero incontro con la realtà in condizioni assai dure. Dopo gli ardori e le battaglie letterarie della prima giovinezza, la passione per la storia del movimento di liberazione russo, dopo l’effervescenza del mondo universitario russo nel 1927, nel fermento della capitale, avrei finalmente avuto modo di mettere alla prova le mie vere qualità morali».
L’altra cosa che il giovane Shalamov non sa è che, da questo momento, tutta la sua vita sarà un inferno senza fine, capace di consumare anche i più saldi principi morali, negando fino all’ultima fibra di ciò che è riconoscibile come umano. Liberato nel ’31, per qualche anno conduce una vita quasi normale, lavora, si sposa, diventa padre. E non sa di essere già stato nuovamente condannato.
Nel ’37 viene condotto al campo della Kolyma, nell’estrema Siberia, e di lì in poi dovrà attraversare più volte l’inferno. Condannato più volte, sarà liberato solo dopo la morte di Stalin. Ma gli anni da uomo libero non saranno anni felici: povero, malato, abbandonato dalla moglie, rinnegato dalla figlia, si dedica alla stesura del suo libro, quei Racconti della Kolyma che sono uno dei grandissimi libri del secolo XX.
Shalamov morì nel 1982, dimenticato.
Due brevissime osservazioni nate dalla lettura di questo indimenticabile libro.
La prima. Incontrando la figura di Shalamov attraverso i suoi scritti nessun lettore può avere dubbi circa il fatto che sarà condannato. Non è solo questione di reato d’opinione: c’è in Shalamov, nella sua innocenza, nella sua buonafede intelligente, qualcosa di ripugnante per il potere moderno. C’è qualcosa che il comunista odia più del fascista, e che il nazista odia più del comunista, e che il rivoluzionario odia più del borghese o viceversa: questa cosa, detta in soldoni, è la libertà dell’uomo. «Essere un rivoluzionario» scrive «significa prima di ogni altra cosa essere un uomo onesto. È semplice, ma quanto difficile!».
Shalamov ci appare come un uomo libero, contro il quale il potere vigliacco di Stalin non ha punti di contatto (con un delinquente ci s’intende meglio), fino a non saper neppure emettere una sentenza di morte. E se oggi l’orrore staliniano non c’è più, resta però nell’aria, scoppietta qua e là quell’odio per la libertà, per l’irriducibilità umana che oggi non assume forme sanguinarie solo perché le circostanze non lo permettono (ma non facciamoci gran conto).
Seconda osservazione.
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