La libertà senza rivoluzione

È in uscita la prima edizione italiana del «Saggio» scritto nel 1796: dalla parte del re, non dell’assolutismo

Due uomini si allontanano dalla scena, mentre una porta si apre sul buio; l’uno è Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, l’altro Joseph Fouché. L’età avanzata del plenipotenziario francese al Congresso di Vienna lo costringe a reggersi sulla spalla del più temibile poliziotto del periodo rivoluzionario. Una voce fuori campo li descrive come «il vizio appoggiato al braccio del crimine»: è il magistrale ritratto che di loro ci fornisce François-René de Chateaubriand in Memorie d’oltretomba. Così si conclude A cena con il diavolo, titolo italiano del bellissimo Le Souper di Edouard Molinaro, uscito nel 1993, in cui si immagina un incontro fra Talleyrand e Fouché nel luglio 1815, per decidere le sorti della Francia all’indomani della sconfitta di Napoleone a Waterloo.
Avendo in mano la prima edizione italiana del Saggio sulle rivoluzioni di Chateaubriand, che esce ora con le Edizioni Medusa, in cui campeggia in copertina La libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix, non si può non pensare alle Memorie d’oltretomba, l’ultima opera di Chateaubriand, scritta nello stesso anno della sua morte, il 1848, dopo il suo allontanamento dalla vita pubblica a seguito della Rivoluzione di luglio del 1830 (a cui appunto è dedicato il quadro di Delacroix).
Vita avventurosa, quella di Chateaubriand. Nato da famiglia nobile e predestinato alla carriera militare, il suo gusto per la libertà «naturale» lo portò, nel 1791, a viaggiare in Nord America, dove trovò l’ispirazione per le novelle «esotiche» Les Natchez (1800), Atala (1801) e René (1802) ancora oggi le opere più lette e studiate per la loro capacità di anticipare le ambientazioni tipicamente romantiche (un Victor Hugo ancora giovane disse una volta: «Voglio essere Chateaubriand o nulla!»). Ma prima di questo ciclo di romanzi ci fu l’esilio imposto dagli eventi rivoluzionari, da cui nacque appunto Essai historique, politique et moral sur les révolutions anciennes et modernes, considérées dans leurs rapports avec la Révolution Française, scritto nel 1796, uscito in prima edizione l’anno seguente e in edizione definitiva nel 1826 (su cui si basa la traduzione italiana).
Ritornato in patria nel 1800, dopo il sostegno offerto alle forze che combattevano la Francia rivoluzionaria ed il successivo soggiorno in Inghilterra, Chateaubriand guadagnò la fama con Le Génie du christianisme, l’opera che avrebbe dovuto provarne la conversione (sulla quale molti nutrirono sempre dei dubbi) e che comunque inaugurò la stagione conservatrice e legittimistica, dopo il profondo amore giovanile per Rousseau. Il Saggio è certamente il frutto più maturo ed elaborato di questo orientamento ideale, in cui trova spazio l’avversione ed il giudizio negativo sulle rivoluzioni di ogni epoca, dalla Grecia antica all’evo moderno, ed insieme il riconoscimento dell’anelito alla libertà a cui è sempre teso l’uomo, secondo una duplicità che sarà caratteristica di tutte le sue opere politiche.
Franco Cardini, nella sua bella Introduzione al volume, sottolinea in più occasioni quanto l’opera di Chateaubriand sembri subire l’influsso di Reflections on the Revolution in France di Edmund Burke, del 1790, e di Considérations sur la France di Joseph de Maistre, pubblicato mentre Chateaubriand scriveva l’Essai. E in effetti verrebbe da chiedersi perché questo lavoro, certamente non banale, non gli abbia guadagnato un posto di diritto fra i classici del pensiero contro-rivoluzionario.
Insieme all’altra sua opera politica importante, La Monarchie selon la Charte (1816), il Saggio delinea un’opzione monarchica che è pienamente consapevole del profondo anacronismo che avrebbe ogni progetto assolutistico dopo la Rivoluzione francese. Per Chateaubriand la rivoluzione è un evento politico che determina il mutamento della forma di governo, da monarchica a repubblicana, o viceversa; tuttavia, spinto dal proprio legittimismo borbonico, era convinto che la repubblica fosse più idonea ai costumi innocenti e non ancora civilizzati che aveva conosciuto nei viaggi d’oltremare, mentre la Francia dell’Ottocento avrebbe avuto bisogno di una monarchia costituzionale, in grado di tenere a freno sia il potere monocratico del sovrano, sia le forti ambizioni individuali di una società borghese. A questo punto intervengono però le componenti trascendentali, le quali, pur nell’orbita di una deresponsabilizzazione politica del re, ne ritrovano gli attributi quasi divini ed il carattere succedaneo del Dio dei cieli, secondo il più classico stile legittimistico.


Anche se non dotata di particolare originalità, quest’opera avrebbe meritato più attenzione, se è vero che soltanto ora, grazie alle Edizioni Medusa, una piccola e giovane ma molto attenta casa editrice milanese, possiamo godere di un’edizione italiana completa (che comprende anche un breve estratto del Genio del cristianesimo), ricavata dalle prestigiose Pléiade Gallimard.

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