Hanno fatto la guerra su due fronti opposti. Nonostante la propaganda incrociata, che voleva che tutti i soldati del colonnello Gheddafi fossero mercenari africani e, dall’altra parte, che tutti i ribelli fossero islamisti e agenti provocatori stranieri, in questi sei mesi la battaglia è stata combattuta da libici contro altri libici. E oggi, mentre a Tripoli compaiono liste di proscrizione per la caccia agli ex membri del regime, e le voci di stragi commesse dai soldati di Gheddafi diventano realtà, è difficile capire se la giustizia avrà la meglio sui sentimenti di vendetta.
Saleh Sheikh non si considera un vero e proprio attivista: «Organizzavo il mio gruppo di amici all’inizio della rivoluzione», dice seduto nella sua casa nel quartiere di Tajura. Ha 31 anni, una moglie giovane, una bella villa. Per il suo coinvolgimento nella rivolta, ha passato sei mesi in un carcere politico fra i più duri della Libia, Ain Zara. Sono venuti a prenderlo in una sera di marzo, mentre dormiva nella sua fattoria assieme ad altri quattro amici. «Hanno buttato giù la porta a calci. Erano 30, alcuni in uniforme, altri in borghese. Ci hanno ordinato di strisciare fino alle automobili, poi ci hanno legato le mani con le nostre cinture e bendato gli occhi. Ci hanno picchiati», ricorda Saleh.
Lo hanno portato nella famigerata prigione di Abu Slim. L’accusa: «Istigazione alla rivolta». Per tre giorni non lo hanno lasciato dormire. Poi, lo hanno trasferito ad Ain Zara: «Eravamo quattro in una cella di tre metri per tre, senza materassi e con una coperta sola, senza sapone e shampoo». Dopo qualche settimana, i prigionieri si sono lamentati per il cibo: un minuscolo pezzo di pane e formaggio al mattino, una manciata di cous cous a pranzo e ancora pane la sera. Le guardie, in risposta, li hanno fatti stendere a terra bendati e li hanno colpiti con bastoni e fruste. Non è stata l’unica volta. Un giorno, durante un bombardamento della Nato, i detenuti, credendo che fosse arrivata la fine del regime, hanno iniziato a gridare di gioia. Quando l’attacco è finito, le guardie sono entrate e hanno sparato ai prigionieri alle gambe, racconta Saleh, che è evaso il 20 agosto, durante la battaglia per la capitale.
Mentre Salah era in cella, dall’altra parte del fronte, Mohammed, di cui non scriviamo il vero nome per paura di rappresaglie, combatteva per salvare il regime. Ora è in un letto all’ospedale di Mitiga, a Tripoli, ferito a una gamba e guardato a vista da ribelli armati. È stato catturato mentre combatteva nella capitale. Racconta che i suoi superiori non lo lasciavano usare il telefono, guardare la televisione. Non sapeva cosa stesse succedendo nel Paese. «Vai a combattere contro i ratti», gli dicevano. Mohammed ha 20 anni, è di Sirte, la città di Gheddafi. Ora rimpiange i tempi in cui il Colonnello era al potere e «c’erano sicurezza e pace». «Molti lo amano ancora. Prima di lui c’era la miseria», dice. «Se la Nato non fosse intervenuta, avrebbe vinto e il Paese sarebbe ancora come prima». I ribelli «mi hanno detto che mi porteranno al consiglio militare, poi da un’altra parte e di non preoccuparmi, tornerò a casa, a Sirte», città sulla quale i ribelli stanno marciando proprio in queste ore. «Temo per la mia famiglia non per me. Se Dio vuole, non ci saranno vendette. Soltanto Allah lo può sapere».
«Se Dio vuole» non ci saranno vendette, ripete un altro giovane soldato di Gheddafi. Soprattutto contro di lui, andato a combatter «soltanto per soldi». «Non sto né con Gheddafi né con i ribelli, sono figlio unico e la mia famiglia è povera». Gli hanno offerto 300 dinari, circa 175 euro, per tre mesi al fronte, soldi che non ha mai ricevuto.
Il 20 agosto, mentre difendeva un ponte a Tripoli, «ha deciso di abbandonare il suo kalashnikov e fuggire. Cercavo un telefono per chiamare mio padre quando sono arrivati i ribelli. Mi sono arreso e dopo mi hanno sparato alle gambe».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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