In libreria Ma oggi la disoccupazione fa meno paura

Lussazioni da tornello, gerontocrazia e, a stretto giro di posta, gerontofilia, familismo viscerale, sindacalismo acuto, burocrazia sovietica, salari squinternati: se il mondo del lavoro italiano finisse al pronto soccorso tutto questo verrebbe diagnosticato a colpo d’occhio da qualsiasi medico - pure con un cognome diverso da «Brunetta» - o probabilmente anche solo dall’infermiere di guardia. Che le cose continuino a girare (la competizione sui mercati globali lasciamola per un altro giorno) ha del miracoloso. È questa la conclusione che si potrebbe trarre dopo la lettura di Non è un paese per giovani di Elisabetta Ambrosi e Alessandro Rosina (Marsilio, pagg. 112, euro 10), recente saggio su, come recita il sottotitolo, un’anomalia peculiarmente italiana: quella dei giovani che non riescono «a far sentire la loro voce», dopo averla trovata. Ma il dato incoraggiante - nonostante in Italia sia occupato solo un giovane (tra i 15 e i 25 anni) su quattro - è proprio questo: la disoccupazione è solo fino a un certo punto un problema di identità, di «trovar la propria voce» (leggi, nel vocabolario dei nonni: «cosa vuoi fare da grande?»). Perché trovarla, la propria voce, i giovani la trovano: la riprova narrativa sta nella lettura di romanzi come quelli di Christian Frascella, Maurizio Makovec, Andrea Cisi (Cronache dalla ditta, Mondadori) a cui vogliamo aggiungere lo scorrevolissimo Voglio l’America di Enrico Franceschini (appena uscito per Feltrinelli, pagg. 190, euro 13). È la storia di un provinciale del Belpaese che, uscito dall’università con il sogno di fare il giornalista negli States, arriva a New York con un borsone rosso a tracolla e soltanto una manciata di frasi di inglese nella testa (questo la dice lunga anche sull’università italiana). Ovviamente nessun quotidiano pubblica i suoi articoli, e lui finisce a distribuire volantini pubblicitari di un topless bar, ma alla fine riuscirà a realizzarsi.

Può anche non essere così per tutti i giovani italiani (inoltre, contrariamente che negli States, dov’è rimasta alla soglia cautelativa del 30 per cento, l’élite dirigenziale da noi è composta per il 45 per cento da ultrasessantenni), ma che la nostra narrativa contemporanea ci parli più dell’impegno dei giovani nell’imporre la loro identità che della fatica di «scoprirla confusamente» - come accadeva nei confusi romanzi degli anni Ottanta - è già un passo avanti.

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