Elsa Airoldi
Tre accordi lacerati e resi più inquietanti da un demoniaco intervallo di quinta diminuita aprono la partitura di Tosca. E con il tema di Scarpia torna sul podio operistico della Scala, dal quale mancava da quattordici anni (Manon Lescaut, febbraio 1992), Lorin Maazel. In mezzo solo una Luisa Miller in forma di concerto e alcuni sinfonici. Tosca, in locandina da questa sera, è una ripresa dal 1997 per Semyon Bychkov. Regia di Luca Ronconi, scene di Margherita Palli e costumi di Vera Marzot.
Lo stesso allestimento sarebbe stato ripreso da Riccardo Muti nel marzo 2000. A cent'anni esatti dalla nascita dell'opera (Roma, Teatro Costanzi, 1900) e nel mese esatto della sua entrata nel Piermarini. Mentre nel 2003 sul podio saliva Gary Bertini. Il titolo, di enorme fortuna, è collocato proprio sullo spartiacque 1900. In bilico tra l'irruenza spesso truce dei veristi (La Giovane Scuola cui i manuali consegnano volentieri anche il nome del nostro) e l'altra irruenza, espressiva e interiore, delle conquiste di Debussy, Strauss, Schönberg, Berg...
C'è insomma una spaccatura della quale Puccini è ben consapevole. Da un lato la volontà, o la necessità, di insistere sul filone verista reclamato dal pubblico. Dall'altro il tentativo di mediare con le preziosità disseminate in partitura gli eccessi plateali richiesti dalla vicenda. Che tuttavia hanno spesso la meglio. Tanto che qualcuno ha sostituito alla definizione di dramma musicale quella di «dramma musicato». Sebbene poi Floria Tosca, famme fatale e disinvolta teatrante, sia parente stretta delle affettuose figurine pucciniane che trovano nell'amore il riscatto e la catarsi. Altro è il discorso per Turandot, tanto gelida e lontana da restare incompiuta. Per la morte dell'autore, è vero, ma anche per la sua impossibilità di risolvere. Toccherà ad Alfano. Recentememte a Luciano Berio. In Tosca l'autore utilizza la tecnica del Leitmotiv (non quello wagneriano), pennella i personaggi e tutto tondo per inserirli in un contesto che corre veloce all'epilogo.
È un Puccini che s'è fatto le ossa a Milano e ne ha respirato gli umori. Anche quelli della Scapigliatura. Indicativo in tal senso come, contrariamente ai colleghi «adottati» dall'editore Sonzogno, il nostro si riconosca in Ricordi. Puccini vanta un background che lo spinge alla conoscenza di Schönberg e Stravinskij. Tanto che le forti tinte che infiammano il cielo di Tosca sono spesso smorzate da modernismi di diversa matrice. Figlio del suo tempo è attratto da Sardou. Del quale conserva i colori per trasformarli nella sontuosa tavolozza timbrica che intesse la partitura. Sempre vergata nel segno di una unità che nemmeno gli stacchi delle celebri arie riescono a incrinare.
Quanto all'allestimento di Ronconi esso resta uno dei più memorabili. Tutto ruota attorno al Leitmotiv di una monumentale chiesa barocca. Di profilo un altare incombente, in alto il tromp l'oeil di un cielo che promette e aspetta. Elementi sghembi e disarticolati disegnano Santa Maria Della Valle. Con i suoi ori, i suoi incensi, e quell'Innocenzo X di Bacon che domina e schiaccia. Rovine in bilico anche per Palazzo Farnese, segnato dalla fuga prospettica di enormi tele che citano i Carracci e uniscono idealmente i due altari che benedicono i crimini di Scarpia. Minnacciosi anche torri e splati di Castel Sant'Angelo. L'idea di catastrofe che ne viene fuori è la metafora della corruzione del clero, e del potere cieco e assoluto del quale quella Chiesa è la proiezione. Cadranno i potenti, morrà quella Chiesa.
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