Paolo Giordano
nostro inviato a Verona
A un certo punto poi si fissa, gli occhi due biglie marroni, e magari gli corre un verso da scrivere sul foglio. E invece no, liquida tutto con una battuta («Le mie poesie sono il frutto di intossicazione emotiva») e continua docile, Ligabue, a presentare il concerto che ieri sera, qui al Filarmonico di Verona, ha aperto la quarta fase della tournée di tutte le tournèe, il Nome e cognome tour. Stavolta, dopo aver scorrazzato per club palasport e stadi, ha scelto la collezione poetico-teatrale, che tutto sommato per lItalia è una novità: in scena canterà le sue canzoni in versione acustica e poi leggerà sei delle poesie che, guarda caso, ha pubblicato ieri per Einaudi (Lettere damore nel frigo, 178 pagg, 9,80 euro). Daccordo, le sinergie sono il sale degli affari e Ligabue non si fa mancar nulla, rockstar regista scrittore e ora poeta, però conserva ancora il candore adolescente di chi si emoziona parlando di sé e non si vergogna a contraddirsi. Recensendo il suo romanzo La neve se ne frega, Fernanda Pivano a sorpresa lo battezzò poeta e lui timidamente smentì. Invece ora eccole, le sue settantasette poesie da mediano, accatastate in pagina senza metrica e punteggiatura, molte impunemente improvvisate, altre, come Disegni sui finestrini appannati oppure Il cammino sulla palla che ruzzola, sardoniche e disilluse come il Liga non si sogna neppure di essere quando attacca la chitarra e via tra palco e realtà. «Ho scritto spiega prima di entrare nei camerini per prendermi la libertà di buttare fuori senza fare i conti con la musica. Le canzoni devono sempre essere chiare, e io lo pretendo, ma le poesie possono anche diventare più cifrate. Mi piace Bukowski, mi ha vinto la sua rudezza quotidiana ma in Italia gli unici cantanti che hanno scritto canzoni sono De Gregori e De Andrè». Daltronde, quando la vita si attorciglia e diventa buia, bisogna purificarsi e lui, che fa questo mestiere per impossibilità di esser altro, lha fatto prendendo la penna, «cercando di fagocitare e assimilare lo stile degli altri perché non sono mai stato un grande lettore di poesie». Evviva. E così è inutile correre a fare paragoni con Spoon river di Masters o con De Andrè, scomodare i soliti riferimenti irraggiungibili e quindi buoni per tutti, perché Ligabue non ha lossigeno lirico e, forse, neppure la voglia di mettere lanima in rima. Scrive. Scrive come gli viene.
«Dopo lalbum Buon compleanno Elvis ammette - ho iniziato a raccontarmi in prima persona, prima avevo solo il coraggio di cantare il mio modo di vedere gli altri. In Lettere damore nel frigo non ci sono punti e virgole, il ritmo devi andare a cercartelo tu e magari fare un po più di fatica». Certe volte la fatica è impegnativa, altre più gioiosa. Quando si mise a scrivere, Ligabue era nel mezzo della sua separazione, il padre era appena morto e un famigliare si era ammalato senza speranze perciò è naturale, come in Post it, che salti fuori il verso addolorato che in quattro parole mette insieme lacrime e speranze: «Nel frattempo accettare meraviglia». Ora che sta vivendo la quiete dopo la tempesta ed è «un buon momento considerata la mia media», queste poesie sono la cartolina di quel periodo e peccato che, qui e là, spuntino le correzioni che attualizzano e va bene, ma tolgono la nebbia, il rancore che aveva acceso la penna. E allora lì Ligabue torna ad essere il Piero Angela del rock, il divulgatore dei sensi comuni oppure il livellatore delle anormalità, quello che sincazza se qualche rockstar è morta allapice della sua disperazione e «altri miliardi di uomini danno vitto e alloggio ai loro disagi ma non vogliono sentirsi persone di serie B».
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