Venezia
- Travolte da un insolito incontro nell’azzurro Lido di settembre. Così, parafrasando il titolo di un suo famoso film, è avvenuto il nostro incontro con Lina Wertmuller. La regista è qui al Festival di Venezia nella duplice veste di appassionata di cinema e di protagonista, insieme con altri nomi storici, del documentario "Venezia ‘68" di Antonello Sarno. "Vedo film, incontro amici e mi riposo in attesa di rimettermi al lavoro - dice la regista –. Il mio prossimo film sarà ambientato a Napoli, si intitola “Mannaggia alla miseria”, si rifà alla figura e all’opera di Mohamed Yunus, il celebre banchiere e fondatore della Banca dei Poveri, uno che sogna, uno che pensa a una vita non dominata dal consumismo e dal dominio del denaro e vede la semplicità come vera fonte di ricchezza dei rapporti umani e della creatività in senso lato”.
Camicia bianca, sorriso smagliante, la celebre montatura in avorio degli occhiali che ormai è il suo marchio di fabbrica, seduta su una sedia da regista sulla terrazza dell’Hotel Excelsior, nel film-documentario sulla contestazione al Festival di Venezia la Wertmuller è la più caustica e la più spensierata: "Se penso a quel nostro Sessantotto in Laguna, debbo confessare che non mi ricordo bene i motivi per cui si contestava. Quarant’ anni dopo, non so nemmeno dire se quei motivi di allora fossero giusti oppure no. Certo, che la mostra andasse ridiscussa e in qualche modo ringiovanita, è un dato di fatto”.
Sulla 65° edizione la Wertmuller ha le idee chiare: "Ci sono troppe manifestazioni concorrenti. C’è una ricerca esasperata del divismo, che fa sì che alla fine le mostre si cannibalizzino a vicenda. C’è inoltre una crisi economica internazionale che tiene lontano investitori e produttori, e questo significa anche meno pubblico, meno critici, meno feste. A ciò si aggiunge lo sciopero degli sceneggiatori e degli attori di Hollywood e insomma il quadro non è dei migliori".
Comunque la regista difende la manifestazione veneziana: "La mostra del Lido rimane la migliore e la più importante. Non solo perché è la più antica, ma perché credo che alla fine abbia trovato il giusto equilibrio fra la ricerca estetica e la necessità commerciale che in quanto industria la cinematografia non può perdere di vista il grande spazio dato al cinema asiatico un esempio che mi riempie di gioia. E’ un cinema nuovo, vigoroso, fatto con quello stesso spirito che segnò quello italiano del Secondo dopoguerra e che poi fece da battistrada alla rinascita di quello europeo".
In chiusura, c’è da parte della Wertmuller ancora spazio per una nota di “sano” nazionalismo: "Ci si lamentava che questo Festival fosse troppo italiano, quattro film in concorso: ma la realtà è che i mass-media dovrebbero smetterla di enfatizzare la cinematografia americana e di pensare che se non arrivano i divi di Hollywood non ci sia più spazio per il “Ciak d’autore e di cassetta”".
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