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L'indagine fa acqua Ma sul caso Cosentino la Lega voterà l’arresto

Motivazioni assurde: è parlamentare e l’azienda di famiglia va bene. La linea Maroni prevale sul Senatùr: "Nessun fumus persecutionis"

L'indagine fa acqua  Ma sul caso Cosentino  la Lega voterà l’arresto

«Sì all’arresto per Nicola Cosentino». Il neogiustizialista Roberto Maroni incassa un’altra vittoria nella lotta intestina alla Lega, mette all’angolo Bossi pressato fino all’ultimo da Berlusconi, ridimensiona il «nemico» Reguzzoni. E concede il bis. Dopo aver contribuito a mandare in galera l’onorevole Alfonso Papa (che per la Cassazione non andava assolutamente arrestato) l’ex ministro dell’Interno in serata annuncia che il Carroccio voterà per spedire in galera anche il coordinatore del Pdl della Campania. Maroni ha evidentemente riportato a più miti consigli il collega di partito nella giunta, Luca Paolini, fino a ieri mattina invece contrarissimo all’arresto di Cosentino e preoccupato dall’atteggiamento di alcuni «maroniani» decisi a votare indipendentemente dalla consistenza reale delle accuse. Prima del voto in aula Maroni forse un’occhiata alle carte dovrebbe darla. Specie dove si asserisce che Cosentino deve andare in galera perché è «un parlamentare della Repubblica». E in cella ci deve restare perché la sua famiglia ha un’azienda che produce utili e perché ha s’è fatto aiutare dai clan nella sua ascesa politica, anche se alla prova elettorale più importante del 2005 (con voto di preferenza) ha clamorosamente fallito battuto da un candidato Udeur. Il Padrino snobbato nell’urna dai picciotti? Da ridere. Con queste motivazioni il gip e il Riesame hanno rigettato la richiesta di revoca dell’arresto, che oggi sarà votata dalla Giunta, per poi approdare in aula. Il voto di scambio vale sempre, tranne stavolta perché, nel loro piccolo, pure i Casalesi ci tengono alla libera concorrenza: «Nella provincia di Caserta - osserva il gip - esiste una quota di consenso non sollecitata» dalla camorra «mentre la quota di consenso controllata» spesso «è divisa tra diversi candidati creando dinamiche incontrollabili che non assicurano la certezza delle elezioni». Insomma, Sandokan ti dà una mano ma... vinca il migliore. E che dire del passaggio in cui il gip ammette che, pure in presenza di comportamenti integerrimi, Cosentino va messo in ceppi dal momento che risulta per così dire «fisiologico» che un politico impegnato nelle sue terre compia attività antimafia che gli consentono di essere «percepito» dal suo elettorato come persona degna del consenso ricevuto». Il gip descrive Cosentino «in stabile rapporto con una delle organizzazioni camorristiche più potenti» anche se non c’è uno straccio di rapporto con un boss, una condanna che confermi i rapporti, e il processo a suo carico chissà perché stenta a decollare. E poi da deputato, «nel corso degli anni di intensa attività politica ha raccolto consensi, stretto legami importanti, allacciato rapporti influenti» a cui «si aggiunge il potere economico della famiglia cui appartiene in relazione alla distribuzione dell’energia, potere economico che di per sé non si può certo colorare di illiceità, ma che conferma l’autorevolezza e la capacità che l’indagato ha di incidere nei settori della politica e dell’economia». Il Riesame, poi, definisce il progetto di costruzione del centro commerciale «Il Principe» un esempio «da manuale di riciclaggio», con Cosentino sponsor politico dell’iniziativa e di procacciatore della fideiussione per i lavori. Nelle carte, però, non esce un’intercettazione dove qualche indagato parla dell’intervento risolutore di Cosentino per sbloccare la pratica bancaria. Anzi, al telefono, Cosentino si dice scocciato dalle insistenze degli indagati. Stando alle «prove» l’ex sottosegretario è estraneo ai momenti essenziali del progetto: dall’individuazione dell’appaltatore alla scelta della banca per il finanziamento, dall’istruttoria per l’erogazione alle complicate ricerche di finanziatori o garanti.
Ma questo non ha convinto il collegio presieduto da Nicola Quatrano di cui ieri alla Camera si ricordavano antichi incidenti di percorso: la presa di posizione pro no-global contro la polizia, l’invito alla disobbedienza civile sulla Bossi-Fini, le minacce targate Br ai Ds inviate dal suo pc. Interrogato dalla Digos, Quatrano giurò che era stato il figlio.

Di anni 12, fortunatamente non perseguibile.

(ha collaborato Simone Di Meo)

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