Cultura e Spettacoli

Lindqvist tra gli aborigeni, viaggio nella terra di nessuno

Terra nullius o terra di nessuno. Terra libera. Che può essere abitata, coltivata da chi ne prende possesso. È un concetto giuridico antico e quasi asettico, il cui presupposto sta nell’assenza di proprietari legittimi. Con qualche sottigliezza: una bestia, per esempio, può ben viverci, in quella terra. Ma non la possiede. E se io considero bestie o semibestie le popolazioni native, mi sentirò in diritto di piantare dei paletti e dire che quella terra appartiene a me. Di fatto, i fondamenti morali che hanno reso ovvia e umana l’occupazione dell’Australia da parte degli inglesi partivano da un principio del genere: gli aborigeni sono uomini, ma solo fino a un certo punto, e la prova è che non si sono evoluti. Come tali, sono destinati a soccombere. Eliminarli significa, allora, sintonizzarsi con i processi evolutivi e selettivi della specie, accelerarli.
In verità, questa tesi riassume uno dei più ramificati mostri generati dalla ragione: l’estinzione di alcune razze è un destino scritto, codificato in natura, le violenze della storia sono il semplice prolungamento di leggi immanenti. Così parla l’inconscio (o il lato oscuro) della cultura europea, e ha cominciato a parlare in un momento per altri versi altissimo quale fu il positivismo. Perché il razzismo scientifico (mi scuso per l’ossimoro) nasce lì, insieme agli statuti delle scienze moderne. E forse, è qualcosa di più che una variabile impazzita di quegli statuti. Ma sono passati quasi due secoli e quell’inconscio sta, gradualmente, tornando in luce come cattiva coscienza, senso di colpa. A volte un vero e proprio (e tardivo, e ridondante) desiderio di espiazione.
Sven Lindqvist, da sempre, diffida delle rimozioni affrettate: genocidi, eliminazioni sistematiche di popolazioni non si cancellano con facilità. E non si cancelleranno mai fino a che il «sapere» europeo manterrà un atteggiamento di (conscia o inconscia) superiorità. L’ultimo libro di Sven Lindqvist, Terra di nessuno (Ponte alle Grazie, pagg. 206, euro 13,50), è, allora, una sorta di pentimento in atto d’un viaggiatore che attraversa l’Australia e, in quelle terre sterminate (che un tempo parvero realmente non essere di nessuno, ma così non era) osserva come l’egemonia dello spirito occidentale ha portato degrado, sradicamenti, morte. E tenta un approccio che vada oltre al senso di colpa e al pentimento, possibile solo nel riconoscimento della pari dignità di culture diverse. Con la certezza che la strada è lunghissima. Perché l’estraneo non è ancora familiare, all’europeo.
In verità, esso colpisce anche nel mondo cosiddetto globalizzato e crea stordimento, meraviglia. E l’europeo si mette sulla difensiva: studia, osserva con attenzione, forse sospetta. Il passo che lo porta a vedere, sempre di nuovo, qualcosa di ostile è breve, brevissimo. L’inconscio razzista è sempre in agguato, dunque. E paradossalmente lo sarà fino a quando l’estraneo susciterà eccessi di meraviglia, stupore, curiosità. Perfino di entusiasmo per il «diverso». Fino a quando non entrerà nel senso comune. Strada, appunto, lunghissima. Forse anche per questo il governo australiano si rifiuta di andare fino in fondo nella richiesta di perdono agli aborigeni, di ammettere le proprie colpe pregresse. Teme qualcosa, non sa bene cosa. Il libro di Lindqvist non è, alla fine, ottimista: vede lontano ma vede, soprattutto, un presente attraversato da giustificazioni, appelli alla necessità della storia, a conciliazioni forzate.

Difficile contraddirlo.

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