
A volte un film non ci pare grandioso per la sua interezza, per restare nella memoria basta anche solo una frase, un'immagine. A quel punto ti dici: è stato bello assistere a questa storia perché questa frase, questa emozione, me la porterò dietro per la vita. Succede così nel film L'infinito di Umberto Contarello, sceneggiatore di La grande bellezza, capolavoro di Paolo Sorrentino che ha vinto l'Oscar nel 2014 come Miglior film straniero. Chi non ricorda Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo? Il re delle feste sulle terrazze romane, quello che sentiva «l'odore delle case dei vecchi». È uno dei frutti più originali generati dal connubio Sorrentino-Contarello, un personaggio iconico che ha lasciato un segno irremovibile nella storia del nostro cinema. Anche in L'infinito i due tornano a lavorare insieme, ma questa volta il regista è Contarello, al suo debutto alla regia.
Ne esce un ritratto intimo dello sceneggiatore che si racconta e si mette a nudo con sorprendente sincerità, attraverso l'alleanza con il più noto regista partenopeo.
La scelta del bianco e nero crea un bel legame con la cifra lirica del lungometraggio, ora in sala. È un'opera silenziosa, con un ritmo flemmatico e allentato che vibra invece per la realtà e l'onestà con cui si mostra. Umberto Contarello interpreta se stesso, quello che è nel suo quotidiano, un creativo nella fase calante della vita, quella in cui tiri la riga, in cui fai i conti con il tempo, con gli amori perduti, con la solitudine. A un certo punto della vita ci si sente soli o si desidera sciogliere i nodi solo con se stessi, oppure non si ha pazienza per compiacere le esigenze di altri, fai i conti con i ruoli, con le sconfitte, con le sorpassate vittorie. Umberto è padre di Elena, una ragazzina appena adolescente che gli dice: «È meglio se ci vediamo quando sei felice». Gelo. A quel punto in sala non si avverte più neppure il respiro dei presenti. Un tonfo. Oblio.
Quando rivedrò mia figlia? Quando sarò felice? Quando sarò capace di mentirle? Non sappiamo niente, è questa la verità, questa l'ammissione da fare a noi stessi, anche quando abbiamo vinto un Oscar. E forse «non c'è niente di male a non sapere niente».
Un film riservato, meditativo, mansueto al punto che più volte può capitare di desiderare che, dopo uno dei tanti silenzi, non ci sia altro se non i titoli di coda o forse manco quelli.
Contarello ha lavorato anche con Gabriele Salvatores (Marrakech Express, Il ritorno di Casanova), Carlo Mazzacurati (Il toro, Vesna va veloce) e Bernardo Bertolucci (Io e te), ma è con Sorrentino che ha trovato il sodalizio più proficuo e duraturo.
In L'infinito la cifra di Sorrentino si sente, ma è come se fosse ammanettata. A volte si avverte un fremito con le catene, come se volesse dichiarare una certa generosità: la sua voce lascia spazio a quella di Contarello nel tentativo di rintanarsi, altre volte invece si impone alzando la testa, ma poi si quieta, si modera per lasciare campo libero all'amico di vecchia data: l'uomo con cui ha scritto This Must Be The Place (interpretato da Sean Penn) con cui ha vinto il David di Donatello per la miglior sceneggiatura. Sembra un dono questo esordio, un regalo che Paolo Sorrentino fa a un uomo con cui ha condiviso idee, amicizia e fiducia.
Suore e sesso, bugie e grandi verità. Morte e salvaguardia dell'età più fragile. Non è un film di trama, è un film di vita, la confessione di un uomo che di fronte alla tomba della madre fa sgorgare le domande che ha taciuto nell'epoca in cui poteva avere delle risposte. E piange: «Le lacrime scendono quando vogliono», dice. È vero.
Apparentemente non c'è niente in questa narrazione, non c'è un turning point, ma c'è tanta sincerità, lealtà, franchezza. Anche in un «Ti voglio bene» c'è dentro tutta la vita di un uomo, di un padre, di un essere umano con le sue inquietudini e i suoi piccoli gesti e le grandi bugie che servono a sopravvivere in un'idea di infinito.
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