Controcultura

La lingua di Céline? Uno spartito musicale

In lui la parola esonda dalla scrittura per diventare un elemento spettacolare

La lingua di Céline? Uno spartito musicale

Qualche anno fa, intitolai uno dei miei articoli universitari «Céline italien: traduire entre le désir d'omnipotence et l'évidence de Sisyphe». Nessuna metafora è stata più appropriata per il mio lavoro di traduttrice nei confronti di cotanto scrittore.

Céline non amava le traduzioni. E si capisce perché. Un autore come lui, che dell'innovazione stilistica più trasgressiva e provocatoria aveva fatto il suo punto di forza, non poteva non vedere nel passaggio a un'altra lingua un impoverimento e una banalizzazione intollerabili. Eppure, a partire dalla seconda metà del XX secolo, il suo successo letterario è andato sempre più amplificandosi a livello internazionale. Dello scrittore di Meudon, l'Italia ha tradotto quasi tutte le opere - marginalia inclusi - spesso negli anni rieditate (come i Colloqui con il professor Y).

Céline e la traduzione italiana sono un binomio (direi un sodalizio) iniziato molto tempo fa. Un anno dopo la pubblicazione in Francia del Viaggio al termine della notte venne pubblicata la traduzione di Alex Alexis, pseudonimo di Luigi Alessio (1902-1962), uno scrittore di origini piemontesi. Costui, nel 1933, noterà già che la lingua di Céline darà del filo da torcere poiché l'italiano non ha un'esatta corrispondenza con l'argot, aspetto questo che rappresenta solo uno dei molteplici ostacoli della scrittura celiniana. La seconda traduzione fu quella di Bagatelle per un massacro nel 1938, contenente parecchi tagli. Poi, il silenzio per quasi trent'anni, una sorta di lunga quarantena. Ma fu grazie alla bella versione di Morte a credito ad opera di Giorgio Caproni che Céline venne investito di una nuova attenzione critica da parte degli intellettuali del Gruppo 63 ed altre personalità tra cui Giuseppe Guglielmi (futuro traduttore della Trilogia del Nord), decisamente più interessati agli aspetti stilistici e linguistico-sintattici che a quelli politico-ideologici. In effetti, avevano capito che lo sregolamento della tradizione letteraria prodotto da Céline trovava similitudini con gli scrittori italiani dell'epoca (uno su tutti, Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana) e che si poteva fare di Céline un potente mezzo di rinnovamento della lingua letteraria italiana. Ma soprattutto, si era capita la necessità di andare oltre la semplice trascrizione del parlato; come sottolineava Guglielmi, occorreva individuarne la «linea melodica» che si appoggia sul ritmo e la sintassi. Ed ecco che eravamo arrivati al nocciolo della questione traduttiva: la lingua di Céline è una lingua d'espressione e non solo un discorso narrativo.

Céline stesso parla di una «trasposizione» dal linguaggio parlato nello scritto, che non vuole essere imitazione dell'oralità, sottolineando così lo stile artificiale che ne deriva.

Ed ecco che abbiamo una dimensione extralinguistica della lingua: quello che Gianni Celati - traduttore tra le altre cose dei Colloqui, Il ponte di Londra, Guignol's Band I e II - chiama «supplemento di comunicazione» in un suo celebre studio che analizza, attraverso il voice and gesture del teatro elisabettiano, la ricerca linguistica intrapresa da Céline. La gestualità, le intonazioni di voce: proprio come la musica, la lingua di Céline è un sistema che trascende il linguaggio e, proprio come la musica, avrebbe bisogno di una partitura su cui indicare le note (il grado di enfasi), la chiave di violino (l'interpretazione comica, drammatica), il tempo. La parola detta diventa elemento spettacolare.

Se consideriamo poi il lavoro degli artisti francesi nel corso degli ultimi venti anni sia in campo teatrale che editoriale (Jacques Tardi, Romeo Castellucci, Fabrice Luchini, Stanislas de la Tousche, la cui somiglianza fisica è impressionante), non sarebbe forse giunto il momento di parlare di adattamenti-transcreazioni piuttosto che di riproduzioni? A tal proposito, nel 1998, vorrei ricordare l'unica sperimentazione televisiva di una lettura teatrale del celebre addio a Molly fatta a tre voci (Alessandro Baricco-Ferdinand, Gabriele Vacis-un lettore e Stefania Rocca-Molly/alter ego femminile di Ferdinand) sulla base di due traduzioni sovrapposte del Viaggio (quella di Alexis e quella di Ernesto Ferrero). La mise en scène mostra la molteplicità delle voci latenti di un monologo in cui gli echi del mondo esterno si moltiplicano, situati in uno spazio universale, senza riferimenti strettamente topografici.

Ritornando alla restituzione testuale, alcune domande che aprivano il colloquio «Tradurre Céline» dell'Università di Cassino risuonano costantemente nella mia testa: è più importante tradurre la componente semantica, oppure è l'energia scoppiettante dell'enunciato, la messinscena della parola, la spettacolarizzazione di una voce che si manifesta attraverso una gestualità fonica e verbale ad avere la meglio?

La traduttologia moderna invita a considerare la traduzione letteraria come un processo che fa muovere e risplendere non originale e copia, ma due testi dello stesso valore artistico.

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