Cultura e Spettacoli

Lino Pellegrini ritrova gli italiani della Madre Russia

Non un libro inchiesta, l’ultimo di Lino Pellegrini, ma un libro riassunto. O, se preferite, un’autobiografia. Pur essendosi proposto un particolare argomento - i collegamenti e gli intrecci tra il nostro Paese e il mondo russo - questo Italiani del Dottor Zhivago (Tassotti editore, pagg. 271, euro 21) ripercorre decenni d’esperienze e d’avventure dell’autore. Che non è un giovanotto: basta dire che i suoi ricordi professionali risalgono alla vigilia della seconda guerra mondiale. Corrispondente di guerra e viaggiatore instancabile, Pellegrini vanta un prestigioso curriculum di inviato all’antica, abituato a cercare le notizie alla fonte, non su Internet.
Nel volume Pellegrini rievoca un’infinità di vicende nelle quali sono stati immancabilmente coinvolti connazionali nostri. Quello dell’«itala gente dalle molte vite» è un luogo comune retorico ma è anche una verità. Ricercando piccole storie segrete che stanno dietro la grande storia, Pellegrini riesce a scovare connessioni imprevedibili. Con il suo gusto per le esperienze massacranti, s’infila - inverno del 1984 - in uno scompartimento della Transiberiana, ci resta fino alla meta, e cammin facendo rammenta il coraggio e l’intraprendenza dei mille lavoratori italiani - mille come i garibaldini - che contribuirono alla realizzazione della colossale opera. «Quanti di noi in Italia - si chiede Pellegrini - ne sapevano prima che Carlo Sgorlon,con La conchiglia di Anataj, ne rievocasse l’epopea?».
Sempre curiosando nel passato, Pellegrini nota nel cimitero moscovita di Vedenskoe una lapide molto interessante che ricorda, in caratteri cirillici, l’«eroe dell’Unione Sovietica» Lopez Ramon Ivanovich. Chi era costui? Ma era Ramòn Mercader, colui che assassinò Trotzki in Messico. Morto a Mosca nel 1978, «Ramòn Mercader - cito dal libro - aveva una sorella, Maria, comunista barcellonese, che sposò il nostro celeberrimo attore Vittorio De Sica. Quindi zio materno di Christian e Manuel De Sica, figli di Vittorio, fu colui che aveva accoppato il fondatore dell’Armata Rossa».
Credo meritino un cenno a parte i ricordi che Pellegrini ha di Curzio Malaparte. Furono insieme in Romania, nel 1941, l’uno (Malaparte) per Il Corriere della Sera, l’altro (Pellegrini) per Il Popolo d’Italia, e Pellegrini si scagliò contro un commissario romeno per i massacri di ebrei che con la compiacenza della polizia si verificavano. «Il mio sdegno gli rimase (a Malaparte n.d.r.) impresso tanto che quando dell’episodio parlò in Kaputt, dopo avermi dato il graffio dello “stupido fascista” (proprio così, tra virgolette), non soltanto mi fece uscir pulito da un libro dove c’è fango per tutti, ma mi esaltò».
Sedici anni dopo, Pellegrini andò a visitare (1957) Malaparte che giaceva, devastato dal cancro, in una clinica romana. Addio triste a un amico. Ma il bonario Pellegrini non risparmia qui a Malaparte un tocco malizioso. «Il dolore non gli attenuava la vanità. Telefonò Renato Angiolillo, direttore del quotidiano Il Tempo, per sentire come stava, rispose: “Sono qui con Lino Pellegrini, è venuto da Milano apposta per trovarmi”. (Ma no, glie lo avevo detto sùbito che stavo volando alla volta del Congo). Con me continuò: “Anche Fanfani mi ha cercato”. Pausa. “E anche Togliatti” (polivalente fino all’ultimo, pensavo). Tacque, riprese fiato.

“Il Papa - mormorò, e io ascoltavo tutt’orecchi - il Papa ha fatto chiedere di me per telefono: ha detto di sapere che sono un’anima buona”».

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