Franco Ordine
nostro inviato a Kaiserslautern
E venne il giorno dello scontro aperto, degli insulti e del chiarimento, della parola forte e della conferma, a denti stretti, del suo proposito di dire addio alla nazionale e al calcio italiano. Il giorno del duello rusticano di Marcello Lippi con la stampa italiana finisce naturalmente sulle televisioni di tutto il mondo e sulle agenzie: i colleghi stranieri strabuzzano gli occhi, registrano e intervistano, «ma perché?, cosa è successo?», chiedono e s’interrogano smarriti dinanzi a tanta elettricità, ingiustificata. O forse spiegata solo dall’arrivo degli ottavi di finale del mondiale, la stagione del «dentro o fuori» per capirsi al volo. E per fortuna non conoscono l’idioma alla perfezione, cioè non colgono la sua chiosa colorita diciamo così, «siete una cosa vergognosa», oppure qualche minuto più tardi lo sfogo con Antonello Valentini, capo ufficio stampa, amplificato dall’impianto dello stadio, «se fanno gli stronzi loro...» Per poi concludere, quasi sottovoce, «tanto è questione di poco». Non è la prima volta, neanche l’ultima nonostante i propositi, confermati, di abbandono. Le intemerate di Marcello Lippi sono un must dei nostri anni migliori, di solito segnalano un corto circuito nervoso del viareggino e la grande fuga verso la barca e gli amici del suo borgo natio. Accadde, per esempio, a Torino con la Juve, al culmine di una sconfitta con il Parma. «Se il problema sono io, me ne vado»: si alzò, salutò il presidente dell’epoca, l’avvocato Chiusano, e abbandonò la panchina bianconera. «Se fossi Moratti prenderei a calci tutti, i giocatori e l’allenatore» la frase civetta pronunciata a Reggio Calabria prima di un altro tempestoso epilogo, la fine dell’idillio con l’Inter mai sbocciato completamente, prima domenica del secondo campionato.
Tutto avviene nei dintorni della penultima domanda, un quesito pertinente, innocente e garbato, «i giocatori cominciano a fare strani discorsi sulla filosofia di gioco della Nazionale, sta cambiando pelle?», lo fa saltare in aria come un tappo di champagne. «Ti blocco subito», «scusa ma allora parliamo di donne», «voi volete la formazione, io non ve la posso dare, non per voi ma per non concedere vantaggi all’avversario» continua. E qui lo scambio diventa una primizia. Sibila e naturalmente si riferisce al suo progetto. «Ma perché allora mi telefonate la sera e mi chiedete la formazione?» insiste. E d’altro canto non è la prima volta che il ct si mostra sull’orlo di una crisi di nervi. Accadde anche ad Amburgo, dopo il 2 a 0 sulla Repubblica Ceca e la qualificazione in cassaforte, in sala stampa, senza un contenzioso autentico. «No, voi mi attaccate perché non vi passo lo schieramento, oppure andate da chi non gioca e gli strappate la mezza frase per montare la polemica» insiste Lippi. «Ma allora perché se la prende con noi se diamo delle anticipazioni?» eccepisce l’inviata di Sky. Nega lui. E quando siamo in due, tre, a ricordargli che non c’è una sola critica apparsa sui quotidiani nazionali legata alla banale questione dello schieramento, lui risponde: «Allora leggo i giornali stranieri». E se ne torna in albergo.
Con un Lippi così elettrico, è inutile inseguire spiegazioni: quelle apparecchiate a conferenza stampa conclusa, riprese dalle tv italiane e no, non conducono da nessuna parte. Meglio allora prender nota delle sue sensazioni, «che sono buone» e che derivano anche dall’esperienza di altre nazionali. «A parte la Germania, subito in carrozza, Argentina e Inghilterra hanno sofferto per passare ai quarti, perciò voglio vincere. Dentro la vittoria, di solito, c’è tutto il resto: il gioco, la corsa, la tattica» fa sapere prima di fare i complimenti a Hiddink, «molto furbo, molto bravo a preparare le partite», e di smascherarlo nel giro di pochi minuti. «Se parla di Davide e Golia, beh allora ve lo dico: è una furbata, esibizione di falsa modestia. Fece così in Corea quattro anni fa: caricò l’ambiente con la storia, loro sono ricchi e famosi, voi siete poveri» la risposta bella e pepata. Che prepara l’alzata di ingegno successivo con cui si chiude la sua conferenza stampa trasformata in una specie di tumulto.
Anche su Totti la sua tenuta nervosa barcolla. Alla collega del Tg1 che gli chiede, «gioca Francesco?» risponde, «venga allo stadio e lo vedrà». Mentre invece, interrogato, sullo stato di Totti, argomenta una replica che è una specie di dichiarazione pubblica di fiducia.
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