Politica

Lippi, il mister che sta col Pd ma odia gli anti Berlusconi

Adesso si fa lo schema della vita. Lascia il calcio per una volta. C’è il resto. Marcello Lippi convoca il suo tridente: c’è un anti-leghista federalista, c’è un socialista di sinistra, c’è un anti-berlusconiano che odia l’anti-berlusconismo. Lui, lui, lui. Tre volte, tre punte in una sola persona. A che serve convocare gli altri? Lippi ragiona, Marcello parla. Senza pregiudizi e con qualche giudizio, con un’idea propria, trasversale. È un trequartista dell’ideale. Sa da che parte sta, ma non ditegli di non sconfinare da un’altra parte. Vuole indipendenza. Quella che non ama nei giocatori, né in Baggio né in Cassano, e che invece cerca per sé. «Marcello libero», hanno scritto qualche anno fa. Allora vai: «Gli attacchi a Berlusconi sono stati molto forti e molto strumentali. Ci si è spinti troppo sul personale. Un’opposizione politica come quella italiana non esiste in nessun altro Paese. Parlo di un’opposizione che, quando una persona viene eletta per fare il proprio lavoro, dopo un giorno inizia subito a massacrarla».
Sa di essere impopolare dalla sua parte, sa che chi avrà il suo voto di quegli attacchi è stato motore o vela, o qualunque altra cosa possa spingere. Quel mondo che contesta quasi apertamente è il suo. Lo sa, Marcello. Lippi è di sinistra, dichiaratamente e orgogliosamente. L’ha detto più volte, lo ripete senza problemi. «Ero e resto socialista, come mio padre che lo era nei tempi in cui questa parola aveva dei contenuti e dei significati molto belli. Odiava il potere, odiava gli Agnelli, odiava la Juventus. Lui morì nel '91, e quando dopo tre anni diventai allenatore della Juve, andai sulla sua tomba e gli dissi: “Abbi pazienza ma io questa carta me la gioco”». La politica non è mai stata un dettaglio. Lippi è amico di Walter Veltroni e quando gli chiedi se è solo un legame calcistico ti risponde di no: «È un'amicizia anche nel nome delle idee. Lo sanno tutti». Una volta andò a trovare Walter al bottegone: era il 1999 e Veltroni era il segretario Ds. Parlarono di calcio e di Juve, dissero a fine giornata. Di politica, pure. Dieci anni dopo Marcello vorrebbe ancora l’amico. Lo definisce «una risorsa», quando Klaus Davi gli chiede di parlare dei candidati alle primarie del Pd: «Ignazio Marino l’ho conosciuto e mi sembra una persona seria. Dario Franceschini non lo conosco. Nel Pd, poi, conosco anche Veltroni, che rimane una grande risorsa. È un uomo che fa tante cose, ma non so dire se la sua stagione tornerà».
Quella di Lippi non è finita. Né come ct campione del mondo né quella di uomo di sinistra. Andrà a votare alle primarie. In coda, a Viareggio, dove una volta in onore dei comunisti le squadre si chiamavano Partizan o Stella Rossa. Lui finì nella seconda per provare a diventare qualcuno. Adesso che lo è la Versilia sembra un’altra cosa. È un’altra cosa: il bel mondo, la bella vita, i soldi. C’è lui, certo. Ricco, bello, famoso. «È il miglior prodotto di Viareggio, dopo Stefania Sandrelli», disse di lui l’Avvocato Agnelli. Arriverà a votare alle primarie con la bici, unico mezzo di locomozione che usa quando il tempo lo permette. Perché vota? «Perché le primarie sono un momento importante e fondamentale. Il Pd sta attraversando una fase dinamica, per cui ritengo che sia importante partecipare attivamente con il mio voto». A chi non si sa. Veltroni non c’è. Si sentiranno, magari. Oppure no. Non s’è mai fatto condizionare, Marcello. Non politicamente. Chi si stupisce ora della difesa della privacy del presidente del Consiglio non ricorda che cosa successe tre anni fa. Lippi aveva appena vinto il Mondiale. Marcello Dell’Utri lo invitò a Montecatini al convegno dei suoi circoli giovanili. Fu un caso. Il Corriere della Sera andò a cercare il ct: «Ma perché ci va?». «E lei perché mi fa questa domanda così piena di stupore? Io ci vado perché ci voglio andare. Mi hanno invitato a parlare e io ho risposto. Lo scriva bene e non faccia finta di non capire: io vado dai giovani di Dell’Utri e di Forza Italia, ma andrei anche alla festa dell’Unità, se mi invitassero».
Ruvido e libero, magari anche al limite dell’antipatia. Perché s’incazza quando insinuano, quando cercano di metterlo in difficoltà. Perché poi? Marcello non capisce quelli che devono stare per forza contro, come se una tessera o una fede politica diventino automaticamente intolleranza verso l’avversario. A lui certe cose non piacciono. Lo dice a modo suo. Piace, non piace, se ne frega. «La tessera del tifoso? Sa di schedatura: e tutto quello che è schedatura non mi piace». Anti-leghista. Maroni un po’ se l’è presa. Bossi anche, per quest’altra cosa: «Non vedo per quale motivo si debba sostituire l’inno di Mameli con il Va’ Pensiero». Allora ce l’ha proprio col Carroccio, Marcello. E invece no, perché poi ti stupisce: italianamente orgoglioso dell’inno, ma non dell’intoccabilità delle istituzioni. Federalista, quindi: «Se ci sono regioni con impegni sociali importanti, non vedo perché debbano avere le stesse situazioni di altre in cui invece ci sia meno voglia di fare». Politicamente sembra il caos organizzato, per dirla alla Fascetti che viene da Viareggio come lui, ma che è sempre stato dall’altra parte. A destra, con Lippi a sinistra. Solo che questo converge, s’accentra e tira. Come da ragazzo quando discusse con Fulvio Bernardini. Il mister gli disse la frase che più fa irritare Lippi ancora oggi: «È troppo bello per fare carriera nel calcio». Bernardini era il genero di Guglielmo Giannini, «l’uomo qualunque». Marcello era il figlio di Simeone, versiliano, socialista ma vagamente togliattiano. Non potevano andare d’accordo. Come no. Bernardini lo fece solo diventare un calciatore di serie A. È cominciato così, con un compromesso.

Non può finire diversamente.

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