Controcorrente

L'ITALIA SENZA VETRINE

Più di 35mila negozi chiusi in pochi anni Per il commercio una specie di catastrofe. Ma per città e paesi non è solo un problema economico

di Daniela Uva

A Zumaglia, provincia di Biella, l'unico negozio di alimentari sopravvissuto alla crisi ha chiuso qualche mese fa. Poco prima era toccato alla panetteria e all'edicola. Nella più grande Follonica, in provincia di Grosseto, solo nel corso del 2019 sono stati 55 gli esercizi commerciali a dover abbassare la saracinesca. E poi c'è il caso di Trento, dove i locali un tempo occupati da negozi - vuoti e ormai degradati -, sono talmente tanti da aver spinto l'amministrazione comunale ad approvare una delibera che permetterà di trasformare le vetrine in luoghi da esposizione di quadri e opere d'arte. Per dare vita a un museo a cielo aperto, in attesa che tornino i fasti di un tempo.

Da Nord a Sud, la moria dei punti vendita di vicinato continua senza sosta. I piccoli commercianti sono schiacciati dalla crisi, dalla burocrazia e dalla concorrenza. Quella dei grandi centri commerciali, che attirano clienti grazie ai prezzi imbattibili, e quella del web, dove le piattaforme dedicate al commercio (...)

(...) online sono diventati colossi in grado di condizionare il mercato e di mettere in difficoltà perfino la grande distribuzione.

Il risultato è che borghi e paesi, soprattutto i più piccoli, spesso già spopolati, rischiano la definitiva desertificazione. Un fenomeno che nelle grandi città tocca le periferie, mentre il centro pullula invece di multinazionali e monomarca di brand globalizzati. A salvarsi, in qualche caso, solo alcune botteghe storiche e attività di nicchia, che sono riuscite a evolversi e ad offrire ai clienti prodotti e servizi su misura.

PICCOLI IN GINOCCHIO

La conferma di quanto la situazione sia allarmante arriva da una ricerca condotta da Confesercenti. Dallo studio emerge che nel corso del 2019 sono spariti almeno 5mila punti vendita al dettaglio: il ritmo è di 14 chiusure al giorno. Negli ultimi nove anni l'ecatombe ha coinvolto almeno 35mila negozi di vicinato, mandando in fumo qualcosa come tre miliardi di euro.

La prima causa, secondo l'associazione di categoria, è la contrazione dei consumi. Ogni famiglia spende in media 2.530 euro in meno all'anno rispetto al 2011. E questo non solo nelle aree più povere del Paese. Basti pensare che le famiglie lombarde hanno ridotto le loro uscite del 3,5 per cento, mentre quelle venete del 4,4 per cento. I settori più colpiti da questa «spending review» fatta in casa sono alimentari e bevande non alcoliche (-5,6%), vestiario e calzature (-3,3%), mobili ed elettrodomestici (-7,5%), libri (-19,3%), giornali (-40,1%). Ma non è solo la maggiore propensione al risparmio a mettere in ginocchio il piccolo commercio. Il dito è puntato anche contro burocrazia, grandi centri commerciali e e-commerce. «Uno dei settori più in sofferenza è l'abbigliamento conferma Mauro Bussoni, segretario di Confesercenti -. La concorrenza dell'online e degli outlet è troppo forte. Così come insostenibile è quella generata da iniziative di stampo americano, come il black friday. Ma questo non vuol dire che difendersi non sia possibile. Ci sono realtà di quartiere che ce l'hanno fatta, specializzandosi nella qualità, nella conoscenza dei prodotti e nei servizi per i clienti. E conquistando nicchie di mercato importanti».

SHOPPING VIRTUALE

La maggior parte dei piccoli commercianti continua però a soffrire. Sempre secondo Confesercenti, lo scorso anno solo il 18 per cento dei dettaglianti ha chiuso con un bilancio positivo. Mentre la metà il 48 per cento ha paura del futuro. Un timore giustificato, visto che negli ultimi nove anni sono spariti 13.031 negozi di abbigliamento, 628 librerie, 3.083 edicole, 4.115 ferramenta, 1.034 giocattolai e 3.357 botteghe specializzate in calzature e articoli in pelle.

A fronte di questa emorragia di affari la concorrenza delle multinazionali dello shopping virtuale cresce sempre di più: secondo l'Istat lo scorso anno le vendite dei piccoli negozi fisici sono diminuite dello 0,6 per cento, mentre quelle del commercio elettronico hanno fatto un balzo in avanti del 16 per cento, con una spesa complessiva di 31,6 miliardi di euro da parte dei clienti italiani. «Le botteghe artigiane vivono della spesa delle famiglie. Se i consumi calano, e le risorse vengono utilizzate quasi solo su internet o nei centri commerciali, il destino di queste realtà non può che essere la chiusura spiega Paolo Zabeo, coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia di Mestre -. Se poi a questi problemi aggiungiamo il costante aumento delle tasse, soprattutto locali, la pressione della burocrazia e la crescita dei costi fissi è chiaro che la sopravvivenza diventa impossibile».

SINDACI PREOCCUPATI

Questo è vero soprattutto nei centri più piccoli e in montagna. «Ormai i borghi nei quali non esiste più un negozio non sono più una rarità, basta andare in alcune zone dell'Appennino per rendersene conto prosegue Zabeo -. Stiamo vivendo una progressiva desertificazione. Passeggiando si incontrano solo saracinesche abbassate e insegne spente. È un problema, non solo economico». Le botteghe di vicinato sono luoghi di socialità, presidi di sicurezza. La loro presenza, le loro luci, il via vai di clienti rappresenta una risorsa della quale le città non possono fare a meno. «Se chiudono i negozi aumenta il degrado, diminuisce la qualità della vita, le strade sono meno sicure si infervora Zabeo -. Ci sono centinaia di sindaci preoccupati. E molti hanno iniziato a prendere dei provvedimenti. A Padova, per esempio, il Comune ha stretto un accordo con i commercianti per riportare alla vita un'area dimenticata a ridosso della stazione ferroviaria. Chi vorrà potrà aprire senza licenza, in modo da risparmiare mediamente 30mila euro. A patto che accetti di lavorare fino a tarda sera, di mantenere accese le luci durante la notte e di occuparsi della pulizia del marciapiede». Su questa scia si stanno muovendo anche altre città, intenzionate a combattere desertificazione e spopolamento a suon di sconti sulle tasse. L'obiettivo è aiutare chi vuol mettersi in affari per aprire piccoli supermercati, ma anche librerie, negozi di musica e agenzie di viaggio. «Anche questi settori sono in enorme difficoltà precisa Sandro Castaldo, docente all'università Bocconi di Milano -. Sono in assoluto quelli sui quali la concorrenza dell'e-commerce pesa di più. Nel caso dei libri la penetrazione delle vendite online supera ormai il 15 per cento. Nel caso del food, invece, la crisi dei piccoli punti vendita privati è causata soprattutto dalla nascita di negozi di prossimità legati a grandi catene. Stanno nascendo un po' in tutta Italia, e servono a portare sotto casa i marchi tradizionalmente legati alla grande distribuzione».

CI VUOLE MARKETING

Nonostante le piccole dimensioni, queste realtà sono in grado di offrire prezzi estremamente concorrenziali, che pongono automaticamente fuori mercato le botteghe a conduzione familiare. Ecco perché oggi più che mai è necessario fare un salto di qualità, specializzarsi, distinguersi dagli altri. Puntando prima di tutto sulle eccellenze.

Per sopravvivere bisogna scegliere posizionamenti molto specifici e coraggiosi prosegue Castaldo -. Alcuni puntano sulla conoscenza diretta dei clienti, che apprezzano il contatto personale. Altri su servizi come la consegna a domicilio gratuita con una semplice telefonata. Altri ancora sulla scelta di prodotti di nicchia, qualitativamente eccellenti e difficili da reperire altrove». L'imperativo è non rimanere nel limbo, affidandosi anche alla tecnologia. «Anche se l'online sta creando problemi, la tecnologia non va demonizzata conclude Bussoni di Confesercenti -. L'esempio estremo in qualche caso ha già avuto successo: c'è chi ha sviluppato app personalizzate per facilitare il rapporto con i clienti».

Daniela Uva

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