Michele Santoro ha scoperto che la vita è difficile. Lo è soprattutto fuori dalla Rai in cui regna una tale confusione da consentire a chi vi lavora di fare i propri comodi: gridare, fare la vittima, atteggiarsi a martire, invocare indipendenza e autonomia dai partiti e dal governo.
I quali, notoriamente
pasticcioni, sempre in competizione e in contrasto fra loro, hanno
perso da anni il controllo dei programmi, degli autori e dei
conduttori. Sicché un personaggio come Santoro, profittando del clima e
dello stile sgangherato dell’azienda, è riuscito per lungo tempo a dare
alle proprie trasmissioni il taglio che gli garbava e conveniva.
Quando, in una circostanza, la politica ha prevalso sulle sue
pretese (nel 2001), e lo ha giudicato, lui, dopo una deludente pausa
al Parlamento europeo dove non ha lasciato segno, è rientrato alla
base (era in aspettativa) e si è di nuovo impossessato del video
grazie all’aiuto determinante del giudice. E da quel momento è stato
sancito un principio assurdo: la magistratura, oltre ad avere un
potere sconfinato sui cittadini e sulle istituzioni, comanda pure alla
Rai, e ha il diritto di mettere becco nei palinsesti. Santoro
riprese ad andare in onda in prima serata alla faccia dei dirigenti
di viale Mazzini che, invece, ispiratidall’alto, volevano spingerlo in seconda per limitarne l’influenza.
Disperazione nel centrodestra, principale, se non unico, bersaglio
del giornalista. Ogni autunno, puntuale come il destino, Michele è
entrato nelle nostre case attraverso Rai 2 con le sue idee, cioè
quelle della sinistra più a sinistra, ma così rossa da tendere
addirittura al viola, suscitando le proteste del Palazzo e anche di
molti condomini, per fortuna non tutti progressisti.
Non c’è stata una puntata di Annozero
che non abbia sollevato polveroni e provocato l’irritazione, a
volte esagerata, della maggioranza in genere e, in particolare, di
qualche suo uomo di spicco. Santoro, furbo oltre che abile, si
stracciava le vesti, si atteggiava a eroe della libertà di
informazione, sosteneva pubblicamente di essere accerchiato da
poteri arroganti, ma rassicurava i telespettatori della sua parte:
non mollerò, mi caccino, se ne hanno il coraggio. Il coraggio, loro, i
politici, l’avrebbero avuto. Ma non sarebbe bastato. Perché in Italia,
se è sufficiente una bella raccomandazione per farsi assumere alla
Rai, è impossibile farsi licenziare. Tant’è che Santoro si è dimesso
spontaneamente per motivi mai confessati, ma intuibili: riscuotere
una liquidazione soddisfacente (un paio di milioni) e trasferirsi armi e bagagli a La7, emittente rilanciata dal redivivo Enrico Mentana, eccellente professionista.
Un piano perfetto e di facile realizzazione.
Anzi, sembrava già realizzato, mancava soltanto la firma, si diceva.
Sbagliato. La trattativa, per quanto bene avviata, si è incagliata su
un punto delicato: quello della libertà incondizionata reclamata dal
divo Michele. Il quale, abituato nel pollaio Rai a fare il gallo, era
persuaso di poterlo fare anche in quello più piccolo della 7. Illusione.
Infatti la proprietà, Telecom, non è disposta a firmare cambiali in
bianco nemmeno all’ex guru di Rai 2. Quindi? Il contratto è pronto, un
accordo è stato raggiunto su tutto tranne che sulla libertà totale. Su
questo fondamentale dettaglio, l’editore è intransigente. Perché la
libertà totale è inammissibile, e nei rari casi in cui è stata ammessa
(e concessa) si è subito trasformata in arbitrio.
Di fronte alla rigidità dell’emittente privata, il conduttore si è sentito prima smarrito, poi offeso; infine ha giocato la sua carta preferita: il vittimismo che giustifica ogni dietrologia. La Telecom, egli ha scritto in una lettera al Fatto quotidiano , ha un conflitto di interessi.
Quale? Un rapporto con il governo per
via di affari relativi alla comunicazione. Ergo, se La7 trasmettesse i
programmi di Santoro,mai tenero con l’esecutivo, quel rapporto potrebbe
guastarsi, danneggiando interessi aziendali. Vero o falso? Non ne ho
idea. Ma può darsi sia buona l’ipotesi numero uno. Comunque il nocciolo
della questione è un altro. La libertà non te la regala nessuno né si
può ottenere per contratto. Occorre conquistarsela giorno per giorno
con la credibilità, sapendo che non siamo su Marte bensì sulla Terra,
dove le persone che lavorano, non solamente nel campo dell’informazione,
sono costrette a scendere a compromessi, a dribblare ostacoli, a
conciliare le esigenze personali e di carattere deontologico con la
realtà.
Siccome la realtà è complessa, non è né rossa né nera e semmai è rossonera (il Milan non c’entra) o, meglio, multicolore, è obbligatorio considerare tutte le tinte e non una sola. Altrimenti si fa casino, cosa lecita solo alla Rai. In posti diversi dall’ente radiotelevisivo di Stato, cioè nelle aziende che non riscuotono il canone, o ci si attiene alle regole di mercato, e si rinuncia a tenere i piedi saldamente piantati sulle nuvole, o non si entra.
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