Littell, Genna e il nazismo da ipermercato

C’è una letteratura che nasce dalla tragedia, e un’altra che ci campa sopra. Lo si nota particolarmente per quei romanzi e racconti che gravitano intorno ai totalitarismi - con la loro messe di deportazioni, prigionieri politici, torture, resistenza clandestina - e alla Shoah.
Quasi tutti questi libri possono essere compresi tra due categorie: quelli nati dall’esigenza interiore della testimonianza, innervati da una tensione di tipo morale e scritti da profeti senza onore in uno stile che è già un atto artistico e politico; e quelli piuttosto verbosi, prolissi, costruiti su una tensione questa volta di tipo psicologico e su una vaga altisonante intenzione di «indagare il male», libri, per così dire, di scuola americana. Il loro stile, una specie di flusso di coscienza, li fa assomigliare a romanzi fantasy dello spirito, dove una cultura onnivora, senza direzione, procede sulla pagina per associazioni mentali, in una sorta di epigonale teodicea a metà strada tra il complesso di Edipo e i miti scandinavi. Questi libri non si rivolgono al sentimento morale degli uomini, alla loro idea di giustizia, di libertà e di dignità; ma fanno leva sull’appeal mediatico che la morale oggi detiene, come sempre accade in tempi parecchio corrotti. Sono sostenuti da pubblicità, uffici stampa, editor, booktrailer, operazioni hollywoodiane: libri figli del consumismo tanto quanto i primi erano figli dell’esperienza e della capacità di non imbalsamarla, magari fasciandola di alibi.
Nella categoria della letteratura-testimonianza incontriamo: Intellettuale a Auschwitz di Jean Améry, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, Se questo è un uomo di Primo Levi, il paradossale Diario della felicità di Nicu Steinhardt, imprigionato dai comunisti romeni insieme al filosofo Constantin Noica, l’«amico lontano» di Cioran, Ionescu, Eliade. Quel Noica autore, tra l’altro, del memoriale Pregate per il fratello Alessandro, dove leggiamo di come il filosofo, mentre è preso a botte dai carcerieri, si sforzi di non guardare in faccia gli aguzzini, di non memorizzarne i tratti: «affinché, una volta fuori, non mi mettessi a cercare per le strade quei volti». È un sentimento di protezione della vita che oggi abbiamo, se non perduto, radicalmente allontanato. A questi libri, e certo anche a Non dimenticatemi di Pavel Florenskij, ora possiamo aggiungere Conversazioni con il boia di Kazimierz Moczarski.
Giungendo alla seconda categoria - quella del nazismo «avec le cul dans le bénitier», la categoria del nazismo da ipermercato - troviamo: Le benevole di Jonathan Littell, Hitler di Giuseppe Genna e financo Il bambino con il pigiama a righe di John Boyne. Romanzi psicologici, sofferenti di quel «mal d’archivio» studiato da Jacques Derrida, e così tipico del postmoderno. Sono libri prodotti da un balbettamento solipsistico e psicanalitico a proposito della storia, e si basano sull’assunto novecentesco di joyciana memoria: «Noi camminiamo attraverso noi stessi incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli, adulterini. Ma sempre incontrando noi stessi».

Quindi, munito di questo passaporto, io autore posso scendere negli inferi e, con un po’ di ironia, affastellarci sopra una narrazione a effetto, compensatoria e sempre piacevole, dove le fantasie diventano idee. Ma, ahinoi, è una letteratura priva di vita.
E forse anche organica a quel male che pretende di descrivere.

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