Va bene, ad una bionda che maliziosamente ci propone di chiamare quella cosa lì «la scaldasonno», o «stargate», si perdona tutto. Senza contare che nella trasmissione di Fazio Luciana Littizzetto è riuscita a realizzare limpossibile: trasformare lignobile siparietto dei, chiamiamoli così, padri snaturati - quelli che istigano il figlio di tre anni a dire le parolacce davanti ai parenti, e quando ci riescono ridono soddisfatti mentre le madri fingono di scandalizzarsi - in un travolgente show dove la madre fintamente orripilata è il Fabio nazionale, il bambino che fa progressi nella débauche la stessa Littizzetto e il genitore snaturato e istigante, ovviamente, la Rai. Un sale scatologico, un pepe sessuale cosparge immancabilmente le esternazioni della Luciana? Succede spesso, ai comici; e non solo a loro. Se si vuol ridere, dicevano una volta i vecchi, hassi a parlar de cacca.
Va un po meno bene la prevedibile sorpresa che attende il lettore de La Jolanda furiosa (Mondadori). Perché lo sventurato, dopo qualche pagina, comincerà a chiedersi se per caso questa o quella battuta non labbia sentita già da qualche parte. Per esempio le lacrime al rimmel che colando producono un pittoresco effetto-puzzola, o la battuta sul divieto di fare la pipì più di due volte al giorno. A questo punto, accertato che tra le puntate di Che tempo che fa e i capitoli del libro vi siano delle analogie fin troppo evidenti, sorge una questione. Cosa viene prima, la performance comica o il testo scritto? In altre parole: la Littizzetto parla come scrive, o scrive come parla?
Nel primo caso saremmo costretti ad immaginare una Luciana modello marconista; vale a dire impegnata, cuffie in testa e penna alla mano, a trascrivere fedelmente le parole pronunciate durante le serate di Rai Tre, e poi a consegnare la sbobinatura alleditore. E questa, in fondo, è la spiegazione più rassicurante.
Laltra è che il testo scritto, in barba ad ogni improvvisazione, preceda lo spettacolo televisivo. Ipotesi suffragata purtroppo da due capitoli della Jolanda: l«Appello a Bill» - nel quale si implora il re di Windows di creare una buona volta un programma che non si impalli ogni quarto dora - e «Cartucce mignon», spietata requisitoria contro le lillipuziane cartucce dinchiostro per stampanti, che durano un giorno e poi sono da buttare.
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